Tra i Tuareg del deserto del Sahara esiste un’ espressione idiomatica, comunemente utilizzata per riferirsi alle ore vesperine. Il suo significato in lingua italiana può essere tradotto come “L’ora in cui esce [dalla tana] il gundi.” Cosa rappresenti, esattamente, questa presenza abitudinaria è largamente noto tra le genti della rilevante area geografica. Ma permane avvolto da un sottile senso di mistero per tutti gli altri. Ecco, dunque, la risposta a questa implicita domanda. Il gundi è il topo con il pettine, comodamente incorporato tra le dita di entrambe le zampe posteriori, da lui utilizzato ripetutamente per potersi sistemare il lungo e folto pelo, non propriamente né istintivamente associabile a un animale di climi tanto secchi e termicamente elevati. Il gundi è una creatura socievole ma battagliera, incline a combattere contro l’arsura muovendosi come una lucertola, soltanto nelle ore in cui il sole comincia a sorgere e fino al raggiungimento di una temperatura eccessiva; che per lui tende a corrispondere alla cifra non trascurabile di 36 gradi. Il gundi è un roditore dalle dimensioni e forma simile ad un porcellino d’India (17-18 cm) ma del color dell’arenaria e dotato di un paio di orecchie molto tonde collocate nella parte alta della testa alla maniera di un pika, benché perfettamente aderenti alla curvatura del cranio per ottimizzare il suo passaggio negli stretti pertugi sotterranei che è solito chiamare “casa”. Potendo trarre giovamento, allo stesso tempo, dalla singolare capacità di appiattire le proprie costole, diventando la ragionevole approssimazione quadrupede di una sogliola del deserto. Famoso per il suo comportamento dardeggiante e la rapida reazione agli imprevisti tipica degli animali-preda, un tanto interessante prodotto dell’evoluzione non poteva certo restare sconosciuto all’uomo europeo in eterno, così che nel 1774 il naturalista e sostenitore di Linneo, Göran Göran Rothmann, si trovò finalmente ad individuarlo durante i suoi viaggi in Libia e Tunisia, attribuendogli il nome poliglotta di Mus gundi, da latino per “topo” e l’espressione locale utilizzata per definirlo. Il che implicava un tipo di classificazione che oggi definiremmo inesatta, visto l’inserimento tassonomico del nostro amico in un genere e famiglia distinti, rispettivamente Ctenodactylidae e Ctenodactylus, con riferimento al pettine anatomico di cui discusso brevemente in apertura. Per proseguire quindi notando un qualcosa di altrettanto sorprendente, configurabile come il possesso da parte della piccola creatura di denti privi sia di radici che del duro smalto a base di ferro che caratterizza la stragrande maggioranza dei roditori, rendendoli effettivamente ottimizzati per nutrirsi preferibilmente delle piante morbide e succulente tipiche dei suoi climi desertici d’appartenenza, di cui va in cerca anche a chilometri di distanza. Un’osservazione comportamentale che avrebbe condotto, di lì a poco, a una seconda ed altrettanto notevole notazione: la maniera in cui questi esserini potessero, e fossero frequentemente inclini a fare a meno di bere.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare data la sua scarsa capacità di regolare la temperatura corporea, il gundi è infatti il possessore di una notevole ottimizzazione per la vita in condizioni così poco accoglienti: dei reni con tubuli extra-lunghi, capaci di assorbire fino all’ultima particella di umidità direttamente dal cibo e concentrando al massimo la propria urina. Una dote che può essere sfruttata in maniera più o meno intensa dall’animale, a seconda della quantità di piante che riesce nei vari momenti a fagocitare. Una volta ritornato nella propria tana sotterranea qualche ora dopo il sorgere del sole, il gundi attende pazientemente le ore del tramonto, quando si avventura nuovamente alla ricerca di cibo. Finché per il discendere eccessivo della temperatura, fa nuovamente ritorno ai crepacci tra le rocce o il terreno semi-solido dove è solito trovare riparo (non possedendo le capacità necessarie a scavarsi da solo i propri tunnel) all’interno di strutture dall’organizzazione particolarmente sofisticata. Con colonie di fino a un centinaio di esemplari nella parte centrale della propria area d’appartenenza, esso è infatti solito dividersi con i vari membri del gruppo in una serie di “stanze” interconnesse, ciascuna occupata da un maschio, una femmina e i loro piccoli, oppure un gruppo di esemplari giovani ancora in cerca di un partner riproduttivo. Una volta individuato il quale, provvederanno a trasferirsi mettendo al mondo in genere un paio di piccoli ciascuno, con un periodo di gestazione di quaranta giorni e quattro capezzoli a disposizione, che la femmina impiegherà allattandoli per un periodo estremamente breve: cominceranno infatti a ricevere il cibo solido dopo meno di una settimana e saranno svezzati entro un massimo di tre, trattandosi di creature notevolmente precoci ed altrettanto rapide nell’acquisire l’indipendenza. Un espediente, probabilmente, necessario proprio per la quantità di liquidi limitata a disposizione della femmina, ed il conseguente alto costo energetico per la produzione del proprio latte. Menzione a parte merita nel frattempo la natura particolarmente vocale delle risultanti famigliole di roditori, inclini a comunicare utilizzando vari tipi di squittii ed un vero e proprio linguaggio, concettualmente non dissimile da quello dei cani della prateria, capace d’identificare i vari tipi di pericoli o predatori. Fino al caso estremo e l’unico approccio disponibile per l’autodifesa, consistente nel battere rumorosamente le zampe anteriori a terra. I cui risultati, chiaramente, possono variare.
Trattandosi di creature ragionevolmente comuni all’interno del territorio di appartenenza, nessuna delle quattro specie di gundi riconosciute viene considerata ad oggi a rischio d’estinzione né viene fatta oggetto di particolari norme di protezione, con alcune popolazioni native ancora inclini ad utilizzarle come saltuarie, non molto sostanziose fonti di cibo. Le varianti appaiono tutte esteriormente alquanto simili, con la possibile eccezione di quella scoperta e classificata in Etiopia da Edward Blyth nel 1856, identificabile col nome di Pectinator spekei. Il cui corpo maggiormente affusolato ricorda, in modo decisamente maggiormente prossimo, quello di un topo domestico europeo.
C’è infine un’ultima associazione, certamente ancor meno piacevole, da fare sui gundi e la loro stretta interconnessione con una particolare branca dell’analisi scientifica. Quella legata all’ubiqua condizione della Toxoplasma gondii, causata da un parassita protista che venne per l’appunto individuata, nel 1908 da Nicolle & Manceaux, grazie alle analisi di laboratorio di una di queste piccole creature. Pur non essendo di loro esclusivo né particolare appannaggio, ma legando eternamente quell’antico nome ad una malattia rilevante negli umani soltanto nel caso in cui sussista un qualche tipo d’immunosoppressione, ma che conseguentemente ad essa può causare anche la meningite con esiti particolarmente gravi o letali. Un altro esempio, se vogliamo, del modo in cui l’osservazione delle creature apparentemente meno significative del nostro mondo possa portare a scoperte importati e possibili cambiamenti di paradigma, occasionalmente in grado di migliorare la qualità della vita umana. Aumentando ricorsivamente, in tal modo, il tempo disponibile per continuare a comprendere ed apprezzare i magnifici sistemi della natura.