Una strada come tutte le altre sul tragitto per l’Oklahoma, senza segni di alcun tipo d’industria pesante o alti pennacchi di fumo all’orizzonte. Ma è soprattutto quando il vento soffia nella giusta direzione, che agli automobilisti si palesa l’evidenza di un odore particolarmente significativo: solforoso come quello di una fonte d’acqua sotterranea ma molto più intenso, e accompagnato da un retrogusto di bruciato latente. C’è in effetti una ragione, se l’origine di tale anomalia si trova in circostanze tanto isolate: siamo nei pressi di un gigantesco stabilimento che risulta essere, nella maggior parte delle circostanze, particolarmente indesiderato. Così come necessaria, o per meglio dire irrinunciabile, tende ad essere la sua produzione. Soprattutto in un’epoca in cui carta e cartone, sdoganati dall’impiego come materiali di pregio nel campo della stampa o della costruzione di modellini di varia natura, si sono trasformati nell’onnipresente fluido del trasporto delle merci al domicilio del cliente finale, in un tragitto che tende a richiedere per qualche ragione una scatola che ne avvolge un’altra, nella versione contemporanea del tradizionale gioco russo delle bambole ricorsive dipinte. E se c’è un gruppo d’aziende, soprattutto negli Stati Uniti e in tempi più recenti anche in buona parte d’Europa, ad aver portato tale situazione fino ai più elevati gradi di efficienza produttiva e di sfruttamento, tra queste non potrebbe certamente mancare la colossale International Paper, con i suoi 250 anni di esperienza pregressa. Ed una produzione all’attivo, in base ad analisi di mercato, pari a circa un terzo del fabbisogno del suo paese d’origine, oggi espresso principalmente dai giganti dell’E-Commerce, tra cui Amazon. Ecco dunque il doppio senso, soddisfacente dal punto di vista linguistico, di coloro che intere foreste possono piantarle ed al tempo stesso distruggerle, sulla base delle imprescindibili regole del Commercio e del Capitalismo. Un altro tipo di regolamento naturale, non meno spietato dei leoni all’interno delle vaste distese aride della savana africana. Ma così come il grande carnivoro non mangerebbe mai l’ultima gazzella, comprendendo istintivamente l’esigenza di mantenere operativa la fonte erbivora del suo sostentamento, allo stesso modo il campo della produzione della carta è storicamente andato a braccetto con quello dell’amministrazione forestale e le piantagioni di alberi, massima realizzazione del concetto “pianta qualcosa e saranno i tuoi discendenti a trarne beneficio”. La cui applicabilità, ai diversi livelli e spunti d’analisi possibili nel caso presente, resta oggettivamente misurabile sulla base di diverse considerazioni soggettive. Ed è qui che tende ad entrare in gioco, come spesso capita, il settore del marketing e delle pubbliche relazioni…
C’è qualcosa di cupamente affascinante ed al tempo stesso doloroso nella prima scena del video di apertura, in cui lo stabilimento della IP viene mostrato in tutta la sua ponderosa magnificenza, dalla prospettiva specifica dell’area di parcheggio ed accumulo dei tronchi. Colonne decennali, quando non addirittura prossime al secolo d’età, di pini, eucalipti e betulle, accuratamente accatastati con la forma di una ruota tutto attorno ad un mozzo centrale. L’alta torre che proietta, tutto attorno, una lancetta d’acqua ricorsiva dotata di essenziali funzionalità di prevenzione. Difficile immaginare, d’altronde, un rischio potenziale superiore a quello di un accumulo di materiale combustibile, secco e pronto ad incendiarsi, non troppo distante da macchinari pesanti che prevedono l’impiego di temperature elevate e massicce quantità di vapore. Una casistica che ha già condotto nei trascorsi a situazioni d’emergenza, come quella particolarmente eclatante dell’esplosione del novembre 2020 a Jay, nel Maine, sviluppatasi per cause mai del tutto accertate all’interno della cartiera di Androscoggin. Questo perché nei passaggi successivi allo scortecciamento dei suddetti tronchi, all’interno di una macchina rotativa dotata di flange, il nastro trasportatore si riconfigura in un sistema catenario di “smontaggio”, procedendo all’effettivo sminuzzamento del prezioso materiale ligneo, successivamente convogliato all’interno di capienti silos di stoccaggio. Prima di essere veicolato nei passaggi successivi in condutture riscaldate e serbatoi di cottura, trasformandosi nella polpa dal potente odore che è l’origine di qualsivoglia tipo di oggetto cartaceo e tutto ciò che inevitabilmente dovrà derivarne tramite l’apporto successivo di presse, rulli ed altri approcci variabili di compressione. Ancorché non prima, ed è forse proprio questo il nesso principale che si tende a porre in evidenza nei video dimostrativi di tale natura, dell’immissione all’interno del sistema di una quantità variabile di carta destinata al riciclo, fonte di fibre anch’esse valide fino a 5 o 6 volte, per essere introdotte nuovamente all’interno della filiera. Nella maniera implementata, mediante lo studio derivante da diversi gradi di tolleranza nei diversi settori d’impiego, dalla stragrande maggioranza dei produttori di carta all’interno dello scenario globalizzato contemporaneo. C’è in effetti un fondamentale fraintendimento in merito all’utilizzo di questo importante materiale, che tenderebbe a considerarlo inerentemente insostenibile a lungo e medio termine alla stessa maniera dei carburanti fossili e i metalli rari utilizzati nella produzione dei sistemi elettronici maggiormente avanzati. La stessa questione che si trova inquadrata nelle trattazioni videografiche del qui presente argomento; poiché non esiste, in alcun tipo di settore della produzione contemporanea, miglior sostenitore di un particolare quartiere della natura rispetto a colui o coloro che necessitano di continuare ad attingervi per dare seguito al proprio guadagno. Il che fa della International Paper, ed altre multinazionali simili, i più accaniti guardiani della coltivazione intensiva di alberi, all’interno dei vasti territori posseduti dai privati latifondisti che negli ultimi secoli hanno “ricevuto in eredità” i vasti territori nordamericani. E sebbene una piantagione d’alberi sia notevolmente differente da una foresta naturale, mancando della biodiversità necessaria a sostenere una pari quantità di specie animali, va pur detto che essa resta pur sempre migliore delle uniche alternative ragionevolmente possibili allo stato attuale dell’economia, di pascoli per il bestiame o terreni dedicati all’agricoltura.
Difficile e del tutto idealizzata tende a diventare a questo punto, l’idea che poderose industrie o proprietari della terra possano essere custodi almeno parzialmente disinteressati della natura, tanto spesso al centro della comunicazione aziendale di un settore come quello delle cartiere. Così come l’istintiva diffidenza, o persino ostilità da parte di associazioni ambientaliste, di fronte all’accumulo e processazione di una quantità impressionante di tronchi, che del resto neanche avrebbero potuto crescere nei loro luoghi di provenienza, senza le vigenti prospettive di recupero dell’investimento. Maggiormente complessa, nel frattempo, risulta essere la questione della produzione di emissioni e l’impronta carbonica di tali aziende. Ma non lo è forse sempre?
E sebbene un “mondo migliore” sia sempre possibile, va da se che implicite utopie possano giungere a realizzazione unicamente per il tramite dell’abbandono del cartaceo in ogni sua possibile aspetto residuo, inclusa quella simbolo della cultura e la sapienza fin dall’epoca della remota dinastia dei Song cinesi. Poiché nessuno mette in dubbio l’esistenza degli alberi su questa Terra da milioni di anni, ma neppure può essere accantonata l’importanza di preservare le caratteristiche ed aspetti che contribuiscono congiuntamente a renderci umani. E se l’odore solforoso del “mattatoio d’alberi” contribuisce a ricordarci questo aspetto soggettivamente problematico, forse anche ciò potrebbe contribuire a renderci coscienti del nostro peso. Per il pianeta che ci ospita da sempre e tutti quelli che, in futuro, potrebbero ritrovarsi a farlo.