L’uomo nella cabina sopraelevata impugna la coppia di joystick con entrambe le mani, mentre al di là del vetro parzialmente appannato infuria e biancheggia la tormenta peggiore degli ultimi quattro mesi. Indefesso ed instancabile, il lungo collo del veicolo ai suoi comandi si piega ed avvicina all’oggetto che costituisce il nesso inconfondibile della questione, già pieno di passeggeri e bagagli: il grosso Airbus A330, posto diagonalmente nello spazio di parcheggio dell’aeroporto sul finire della gelida serata. Raggiunta l’estremità ideale dell’arco disegnato nella propria mente, l’addetto preme quindi il rigido grilletto alla sua destra fino al primo dei tre scatti designati, lasciando che un getto ad alta pressione fuoriesca dal bocchettone posto al centro della sua inquadratura. Lentamente, il jet di linea inizia a tingersi di un aggressivo color verde smeraldo…
Aspetto cruciale nella progettazione di qualsiasi velivolo più pesante dell’aria è il rapporto tra resistenza dell’aria e portanza, ovvero la capacità da parte delle ali di veicolare l’atmosfera in modo tale da costituire il cuscinetto invisibile che allontana il mezzo, e tutto il resto del suo contenuto, dal rigido suolo che impieghiamo normalmente per camminare. Il che significa, volendo avvicinarsi al nocciolo della questione, che i margini di tolleranza nella progettazione di questo tipo di apparecchi, intesi come rapporto tra peso e potenza, ma anche la specifica geometria delle superfici di controllo, sono straordinariamente precisi ed ogni deviazione dall’idea dai canoni studiati a tavolino dagli addetti allo sviluppo può costituire non soltanto un ostacolo alla loro efficienza, bensì un letterale pericolo per chi si trova a bordo, nei dintorni o al di sotto del loro intero tragitto. Qual è il problema, dopo tutto? Non è che qualcosa di liquido o semi-denso possa cadere dal cielo, rimbalzando sopra la carlinga e il paio d’ali per ore o minuti, finché il rapido mutamento della sua materia costituente verso lo stato solido possa costituire una patina ruvidamente impenetrabile e saldamente attaccata al corpo di un oggetto metallico temporaneamente in attesa di decollare… Fatta eccezione per determinate latitudini, s’intende. Poiché fin dalla concezione del volo istituzionalizzato e commerciale, venne compreso come la precipitazione atmosferica tipicamente rappresentativa dell’inverno potesse costituire un problema da risolvere mediante l’utilizzo di approcci coerenti ed affidabili. Ovvero che potessero funzionare, per quanto possibile, sempre alla stessa maniera.
Un concetto più difficile a realizzarsi dal punto di vista pratico di quanto, idealmente, si possa essere inclini ad immaginare…
Immaginate, a tal proposito, la “soluzione” spesso scelta da automobilisti incerti, alle prese con la formazione di un solido strato sopra il parabrezza del proprio mezzo intrappolato nella morsa del gelo. Talvolta inclini a fare uso di un secchio pieno d’acqua preventivamente portato a temperature più o meno elevate, poco prima di essere gettato con le migliori intenzioni in corrispondenza del problema, ben conoscendo l’effetto che il calore tende ad avere sulle cose congelate nella maggior parte delle circostanze note. Il che potrà anche avere effetti positivi nell’immediato, purché non spacchi il vetro a causa del gradiente eccessivamente repentino, ma nel tempo medio o lungo fornirà ulteriore umidità pronta a ritrasformarsi in ghiaccio, magari proprio mentre il veicolo è intento a spostarsi da un luogo all’altro. Problema esponenzialmente più grave, nel momento in cui ci si dovesse trovare a due o più miglia di quota, senza nessun tipo di area di sosta a disposizione. E con il rischio addizionale del peso aggiunto in grado di aumentare la velocità di stallo, i consumi e i relativi fattori di rischio, potenzialmente conduttivi al verificarsi di un irreparabile disastro aereo.
Il che ci porta finalmente ad una delle più rilevanti innovazioni nel settore dell’ultimo mezzo secolo, consistente nell’impiego in campo aeronautico di prodotti specifici capaci di fluidificare la “contaminazione” da ghiaccio, impedendone la successiva formazione per tutto il tempo necessario affinché l’aereo raggiunga una quota e velocità di movimento tali da non correre più il rischio del suo ritorno. Si tratta generalmente di un composto di alcol ed altre sostanze chimiche dal punto di congelamento molto più basso dell’acqua, applicato attraverso dei getti a pressione nel processo noto come sghiacciamento a due stadi. Questo perché nella procedura universalmente approvata, suddivisa in una serie di passaggi dalle tempistiche definite, gli operatori dotati di apposite piattaforme o cabine sopraelevate del tipo conforme ai dispositivi utilizzati in campo agricolo per la raccolta di frutti nelle coltivazioni arbustive (vedi, ad esempio, le ciliegie) verranno fatti avvicinare all’aereo intrappolato nel ghiaccio, per procedere dunque all’emissione del cosiddetto fluido di tipo I: principalmente glicole propilenico ed acqua, preventivamente riscaldati ad una temperatura adeguata al fine di indebolire e nella maggior parte dei casi, far staccare il fattore contaminante dalle superfici ghiacciate. Fase alla quale segue l’immediato passaggio al serbatoio del tipo II, in pratica la stessa sostanza ma colorata d’arancione e trattata con addensanti pseudoplastici, capaci di garantirne l’aderenza all’aereo per un periodo dieci volte superiore, prevenendo la ri-formazione di ghiaccio fino al momento del suo decollo. Un’accoppiata di effetti perseguibili, con risultati simili e risultati in genere più duraturi anche con i fluidi di tipo III e IV, rispettivamente costituiti da glicole etilenico sottile o denso e preventivamente colorati di verde, al fine di meglio distinguerli dalla loro controparte. Ed il pigmento incline a scolorirsi gradualmente al contatto con l’aria utilizzato anche ad un fine pratico, onde offrire al pilota un riferimento visibile della graduale e inevitabile perdita d’efficacia di ciascun trattamento, ragion per cui si tende ad applicare simili sostanze nel momento più vicino possibile al via libera per staccarsi da terra.
La creazione di simili procedure, sempre sottoposte alla responsabilità e supervisione del pilota ai comandi, deriva come spesso capita da una serie di pregresse situazioni di pericolo ed incidenti. Giacché si riteneva fino all’inizio degli anni ’80, in forza alle specifiche e caratteristiche degli aerei più moderni, che i sistemi di sghiacciamento a bordo potessero contrastare ogni tipologia di contaminazione o appesantimento invernale del velivolo, mediante l’utilizzo di soluzioni termoelettriche di riscaldamento o l’aria stessa del motore, veicolata attraverso le ali con approcci progettuali simili a quello del massiccio Boeing 747. Almeno fino al tragico incidente che nel 13 gennaio del 1982, all’aeroporto di Washington National (Virginia) avrebbe visto un 737 perdere improvvisamente potenza durante il decollo, finendo per schiantarsi a pochi chilometri di distanza contro un ponte automobilistico sul fiume Potomac. Causando il decesso di 79 delle 83 persone a bordo e le quattro che si trovavano ad attraversarlo in quel momento. Una casistica successivamente identificata come derivante dal ritardo nel decollo di un ora e 45 minuti, durante cui nessun tipo di fluido di sghiacciamento era stato utilizzato sulla base delle linee guida ancora per lo più facoltative, ma che in seguito sarebbero state schematizzate ed imposte dagli enti addetti alla valutazione dei fattori di rischio. E implementate in modo misurabile ed apparente dagli addetti a un compito frequentemente sottovalutato.
Ma che ci garantisce, al pari delle lunghe procedure di ricerca e sviluppo, una sicurezza esponenzialmente maggiore ogni volta in cui lasciamo il terreno solido che dovrebbe costituire il nostro unico elemento di appartenenza. Verso le regioni iperboree dove i sogni più leggeri dell’aria, in un modo o nell’altro, sembrano riuscire a manifestarsi.