Chi non ha mai ponderato, nei trascorsi delle proprie scampagnate crepuscolari, l’assoluta utilità ecologica dei suini? Gremite famigliole irsute, grufolanti nella propria intima soddisfazione, che mangiando i frutti della terra propagano la diffusione dei preziosi semi contenuti all’interno. Che grufolando tra gli strati del suolo compatto, permettono all’ossigeno di penetrare le dimore dei lombrichi. E scavando tane per i propri piccoli, ne avallano l’impiego successivo ad opera di numerosi altri abitanti della foresta. Già, i cinghiali: occupanti di uno spazio ecologico precisamente definito, in grado di rispondere a esigenze di notevole respiro. È soltanto a causa di specifici fattori esterni, che la loro presenza tende a diventare problematica. Sto parlando, molto chiaramente, della convivenza a stretto contatto con l’uomo. Il che diventa problematico, per molteplici e condivisibili ragioni, nel momento stesso in cui l’intera popolazione di una specie a rischio presenti il proprio territorio endemico entro lo spazio relativamente ristretto di un arcipelago densamente popolato. Ed occupato da strutture agricole ed urbane di diversa in una percentuale preponderante del suo totale. Peccato proprio ciò sia il caso, per l’appunto, del Sus cebifrons o cinghiale dalle verruche delle Visaya (Cebu, Negros, Panay, Masbate, Guimaras e Siquijor) un gruppo di terre emerse situate nella parte mediana delle Filippine, dove il ruolo e l’aspetto dei maiali selvatici, chiamati localmente biggal, si è da sempre dimostrato particolarmente interessante; con la loro corporatura massiccia, la maschera bianca sul muso ricoperto da preminenze carnose protettive e il ciuffo preminente sopra il capo, in tutto e per tutto simile a un faux mohawk. Quando non ricade con palese senso dello stile da una parte della testa, ricordando un cantante britannico degli albori del genere Pop. Uno che sia stato trasportato, d’altra parte, nel contesto totalmente nuovo di un ambiente dove la musica è secondaria. Mentre conta, più di qualsiasi altra cosa, la capacità di aggregazione e soluzione di problemi quotidiani dal variabile livello di complessità.
Costituendo dunque una delle poche specie di suini caratterizzati da uno stato critico di conservazione, questo essere dall’aspetto affascinante è giunto a costituire oggi un raro pretesto utile ad approfondire il comportamento e l’organizzazione sociale di una simile categoria di creature, al tempo stesso possibili prede e dominatori strategici del proprio frondoso ambiente. Permettendo di acquisire cognizioni in merito alla loro intelligenza che sarebbero risultate, fino a poco tempo fa, impossibili da immaginare…
La prima a parlarne in un contesto scientifico fu soltanto nell’ottobre del 2015 la ricercatrice Meredith Root-Bernstein, in visita presso il piccolo zoo del Jardin des Plantes di Parigi, che si era ritrovata ad osservare un gruppo di cinghiali dalle verruche tenuti in cattività alle prese con un approccio operativo completamente inaspettato. Questi animali infatti, la cui popolazione allo stato brado stimata non supera ormai i 200 esemplari, si adattano e moltiplicano molto bene in contesti artificiali, ragion per cui la loro popolazione vivente risulta essere almeno raddoppiata grazie alle molte istituzioni di tutela in patria e nei diversi contesti internazionali. Nella tipica recinzione utilizzata per ospitarli viene a tal proposito previsto uno spazio adibito alla protezione dei piccoli, riparato dallo sguardo diretto dei visitatori, se non che guidate dall’istinto le suddette madri tentano generalmente di scavarne uno maggiormente conforme alle proprie necessità naturali. Ed è proprio mentre stavano facendo questo, che i due imminenti genitori irsuti furono da lei notati mentre si passavano vicendevolmente un pezzo di corteccia, per impiegarlo in un modo che può essere soltanto associato a quello di una vanga. L’approccio, in altri termini, di veri e propri utilizzatori di attrezzi, nella maniera normalmente associata ai primati che partecipano del fondamentale bisogno di adattare il mondo alle proprie personali necessità. Pubblicazione dalla quale si sarebbe palesato, in seguito, un ulteriore contributo alla discussione. Quello di Fernando “Dino” Gutierrez, presidente dell’associazione per la conservazione Talarak, particolarmente attiva nella tutela della fauna unica delle isole Visaya costituita in modo particolare dai “cinque grandi”: il bucero dalla testa rossa di Walden con suo cugino detto più semplicemente “delle Visaya”, la colomba del cuore sanguinante di Negros, il cervo maculato e per l’appunto, il cinghiale dalle verruche. Quest’ultimo visto a più riprese e come anche confermato dai locali mentre utilizzava delle pietre trovate in giro, per spingerle contro i fili delle recinzioni elettrificate collocate dagli agricoltori, andando in questo modo alla ricerca di quelle prive di corrente, da abbattere e scavalcare con vandalico trasporto e sprezzo pressoché totale dei limiti imposti ai propri movimenti. Un comportamento in grado di offrire prospettive nuove ma ancor più problematico al tempo stesso, quando si considera ad oggi la mancanza di adeguate iniziative o norme di tutela per questi abitanti ancestrali dei boschi, ormai visti più che altro come vandali e distruttori della proprietà privata alla stessa maniera delle specie simili che frequentano i margini di molte delle nostre città europee. Aggiungete a questo la facilità con cui il Sus cebifrons può riuscire ad accoppiarsi con maiali ferali incontrati all’interno del suo territorio, e potrete comprendere come questa specie inconfondibile sia oggi avviata verso l’incipiente scomparsa futura dal proprio ambiente naturale di appartenenza. Il che potrà anche essere meglio dell’estinzione, ma non di molto.
Apparentemente dotati di una struttura sociale complessa, in cui le prerogative dell’accesso esclusivo alle risorse vengono subordinate alla necessità di unire le forze in gruppi da 3 a 12 esemplari adulti, capaci di dividersi i compiti e proteggere vicendevolmente piccoli, i cinghiali delle Visaya non ebbero in effetti alcun problema a garantirsi la sopravvivenza fino all’aumento esponenziale della popolazione umana delle isole, il che può essere visto come una tendenza praticamente impossibile da contenere. Laddove, almeno nell’opinione promossa da organizzazioni come la Talarak è pur sempre percorribile un approccio sistemico, in cui la tutela organica di specie multiple risulti capace di proteggere, nello specifico, ciascun singolo appartenente al gruppo. Il che potrebbe avere obiettivi molteplici e singolarmente altrettanto importanti: vedi l’opportunità di proteggere i processi utili all’ecosistema sopra menzionati. Ma anche quella di comprendere e studiare l’origine dell’intelligenza nel regno animale. Verso una maggiore comprensione del luogo da cui proveniamo e quello occupato dagli esseri che avrebbero potuto, con risvolti alternativi del processo evolutivo pregresso, riuscire a sostituirci. Dopo tutto chi può dire, realmente, se davvero non potessero esser stati alla fine i maiali, a percorrere i cieli nelle loro folli macchine volanti a vapore?