L’ultimo discendente di Genghis Khan insignito del potere temporale di una nazione scrutò con sdegno i postulanti che gremivano la piazza posta all’ombra delle sue mura merlate. Ben stretto nella mano destra aveva il manico della frusta di cuoio e legata in vita la scimitarra ingioiellata, simboli e prerogative dei suoi doveri, in primo luogo verso Allah, quindi gli antenati della dinastia Manghit e soltanto in terza posizione il popolo d’ingrati a cui aveva elargito la propria saggezza, competenze e il buon governo di quasi una decade trascorsa sul trono dell’emirato. “Ho scacciato la corruzione, ho reso sicure queste strade, ho incentivato i commerci riducendo le tariffe ed istituendo un sistema di tassazione più giusto. E questo è i loro modo di ricompensarmi?” L’anziano visir dalla lunga barba ed il turbante bianco, scrutando l’espressione del suo signore, provò in quel momento un senso di preoccupazione profonda. Conosceva quell’atteggiamento ed aveva visto a quali scelte poteva condurre, già nel padre dell’attuale governante di Bukhara, ‘Abd al-Ahad Khan: “Supremo tra i sapienti, insigne astronomo della nostra Era, ascoltate in questo giorno il mio consiglio. La delegazione che state scrutando è un mero tentativo di ottenere le vostre grazie. Essi non sono ancora pronti per lo scontro armato. Fate accompagnare i rappresentanti degli Mladobukharan nella sala delle udienze ed ascoltate le loro richieste. Una, due concessioni prive d’importanza ci permetteranno di guadagnare tempo. Avremo modo di trovare nuovi alleati e la stabilità del regno ne uscirà rafforzata.” Sayyid Mir Muhammad Alim Khan, nelle sue lunghe ed eleganti vesti fiorite, batté le palpebre per una, due volte. Per un paio di minuti sembrò immerso in un profondo stato di meditazione. Quindi si voltò con enfasi verso l’alta porta monumentale dell’Arca, da cui pendeva l’orologio fatto costruire dal suo predecessore del XVIII secolo, Nadir Shah. Allora l’anziano consigliere chiuse gli occhi, poiché sapeva che aveva fallito. Tutti a corte conoscevano la storia, per non dire parabola di Giovanni Orlandi. “Questi… sedicenti giovani di Bukhara hanno impiegato una parte di gran lunga eccessiva della nostra giornata. Così come il costruttore di quel meccanismo per segnare il tempo venne messo a morte, avendo rifiutato di trovare la salvezza e per bevuto il vino proibito, che costoro conoscano la nostra ira!” Schiocco di frusta. “Guardie! Disperdete la folla.” Due ore dopo, i canali dell’antica e magnifica capitale dei Bukhar Khudah, supremi signori dell’Asia Centrale, si sarebbero riempiti di una certa quantità di corpi esanimi, alcuni bastonati gravemente, altri non più in grado di partecipare al mondo ed alle attività dei viventi. Due mesi dopo la notizia della trattativa fallita avrebbe raggiunto la città di Mosca. Due anni dopo l’Armata Rossa, avendo recentemente spodestato le strutture di potere degli Zar ormai decaduti, avrebbe occupato quella stessa piazza, dando l’ordine di bombardare l’arca e tutti i ribelli realisti che si trovavano asserragliati all’interno. Ma l’emiro, il suo visir, le numerose mogli e figli erano già fuggiti da tempo a Kabul, in Afghanistan. Dove avrebbero trascorso, in relativa pace e contemplazione, il tempo che gli rimaneva da vivere su questa Terra.
Ne uscì gravemente danneggiata, la metropoli dell’Asia che il diplomatico britannico Fitzroy Maclean avrebbe descritto nel 1938 come “In alcun modo inferiore, nella sua suprema magnificenza, alla migliore architettura del Rinascimento Italiano”. Ma nulla avrebbe potuto scuotere, o in alcun modo distruggere, la formidabile struttura dell’Arca. Una fortezza distrutta e ricostruita tante volte, che ormai le macerie stesse dei secoli erano entrate a far parte dei suoi bastioni. Le cui torri bombate sorgevano, come altrettanti termitai abbarbicati sulla cima di una montagna…
Il castello principale, nonché edificio più antico di Bukhara sulla Via della Seta è un complesso di 3,96 acri, le cui mura perimetrali misurano 789 metri con un’altezza variabile tra i 16 ed i 20. Vera e propria città proibita nella tipica concezione dell’Asia, esso avrebbe contenuto non soltanto le strutture amministrative, la moschea ed i simboli del potere dinastico, ma anche i due fondamentali luoghi si supponeva che il sovrano trascorresse le sue giornate, la biblioteca della scuola coranica e l’harem delle sue numerose mogli. In verità il celebre medico medievale Avicenna (Ibn Sīnā) durante i suoi viaggi verso est scrisse: “Ho trovato in questo luogo libri che non avevo mai vista prima. Li ho letti ed ho conosciuto tutte le scienze. Di fronte a me, si è spalancata una sapienza che non sapevo neppure potesse esistere in questo mondo.” Il che costituisce, incidentalmente, uno dei primi documenti scritti in merito al complesso, menzionato in modo più estensivo nella Storia di Bukhara dello studioso sogdiano Narshakhi (899 – 960) che parla del celebre castello, più volte distrutto e costruito di nuovo. A cominciare da un’epoca che oggi giudichiamo corrispondere al sesto secolo, quando si dice che Budun Bukhar-Khudat, l’allora sovrano della città, decise di edificare nuovamente una sua residenza dove moltissimi anni prima era stata sepolta la figura mitologica del principe Siyavash. Un importante personaggio in molti paesi di matrice islamica, la cui datazione si perde nelle nebbie del tempo, venendo collocata per antonomasia agli albori del primo impero Iranico (II millennio a.C.) incarnando la figura di un eroe pio e rispettoso, dall’impareggiabile tempra morale, accusato ingiustamente di violenze sessuali da sua moglie e per questo inviato in esilio. Nella misteriosa terra di Timur, possibilmente corrispondente all’odierno Uzbekistan, dove il padre della sua seconda consorte gli disse che avrebbe potuto sposarla soltanto costruendo “Un palazzo che potesse essere circondato da una singola pelle di bovino.” Da che l’idea di tagliarla in lunghe strisce, possibilmente presa in prestito dal mito sulla fondazione di Cartagine con protagonista la regina Didone, provvedendo a racchiudere lo spazio di quella che sarebbe diventata l’arca di Bukhara.
O almeno, questa è la leggenda. Di un impressionante palazzo fortificato, destinato unicamente a crescere attraverso le generazioni. La cui pianta ortogonale, più volte ampliata dai grandi architetti e costruttori dell’inizio del secondo millennio, assunse gradualmente la forma forse intenzionale degli astri dell’Orsa Maggiore, emblema in base all’iconografia locale del potere supremo. Come città effettivamente indipendente dal pur vasto centro urbano che gli crebbe attorno, da sempre un importante svincolo commerciale per le merci provenienti da Cina, Russia ed Europa, essa era divisa nel periodo classico in tre parti: la cittadella propriamente detta, l’università islamica e le residenze. Molti straordinari edifici, costruiti primariamente in legno e mattoni di fango come le massicce mura monumentali vennero eretti ed ampliati attraverso i secoli, spesso sulle stesse fondamenta di quelli cronologicamente antecedenti. Così il livello del terrapieno all’interno del castello continuò a salire, creando un’impressione di compattezza inamovibile che ancora oggi caratterizza uno dei principali punti di riferimento di questa città dalla lunga e complessa storia. Benché vada sottolineato come la stragrande maggioranza delle strutture oggi visitabili entro il perimetro delle mura, dietro il pagamento di un biglietto ragionevole di 5,000 som (1,5 dollari) siano di costruzione moderna, in base all’aspetto teorizzato dell’antico stile architettonico dell’Arca. Molti di essi dedicati ad importanti musei nazionali, tra cui quello dei Manoscritti, della Natura, dell’Archeologia e della Numismatica uzbekistane. Offrendo un’opportunità, ai moderni viaggiatori, di acquisire con un solo sopralluogo l’impressione generale di una cultura sincretistica, ed il luogo d’incontro tra popoli e culture differenti che venne rappresentato per lunghi secoli dalla città, un tempo nota per l’appunto come Vihāra, un termine in lingua sanscrita impiegato per indicare i monasteri buddhisti. Finché l’arrivo del culto di Zoroastro, con le sue velleità monoteiste, non avrebbe portato all’allontanamento dei cosiddetti infedeli.
Nulla, d’altra parte, può durare per sempre e l’Arca completa in ogni sua parte non avrebbe purtroppo fatto eccezione. Dopo la dura battaglia combattuta nel 1920 ed il conseguente bombardamento, che ne demolì essenzialmente ogni struttura tranne le imponenti porte decorative fiancheggiate dalle torri del XVIII secolo, i magazzini interrati e le prigioni. Sebbene esiste una teoria, sussurrata già in epoca coéva, secondo cui sarebbe stato proprio l’ultimo emiro di Bukhara, Sayyid Mir Muhammad Alim Khan, a far saltare in aria intenzionalmente la sua residenza con i preziosi tesori all’interno, affinché gli odiati bolscevichi non potessero arricchirsi a sue spese o dissacrare la sapienza dei propri antenati.
Un gesto difficilmente verificabile ma che a conti fatti, rientrerebbe senz’altro nello storico pregresso dei sovrani posti innanzi alla perdita delle proprie prerogative vecchie quanto l’irrisolto conflitto tra Occidente ed Oriente. Ancor prima che l’idea dell’individuo di altre classi sociali, come singolo essere dotato di diritti e aspirazioni, potesse sovrascrivere la rigida suddivisione in caste dei tempi antichi. E l’inviolabile sacralità suprema, dei palazzi del potere costruiti dai supremi, e per questo irraggiungibili predecessori.