All’inizio del secolo scorso, tra gli uomini al volante delle vetture a ruote scoperte, freni inefficienti, sospensioni instabili e motori potentissimi di un mondo delle corse follemente pericoloso, nascevano rivalità e amicizie destinate a superare indenni ogni tribolazione delle avverse circostanze umane. Questo non era senz’altro il caso dell’italo-americano Ralph De Palma e il suo avversario giurato, Barney Oldfield. Sollevandosi sopra il sedile per meglio varcare con lo sguardo il parabrezza macchiato d’olio della Packard col motore aeronautico che stava conducendo ad una velocità media di circa 160 Km/h, mentre si avvicinava alla terza curva del circuito sterrato di Milwaukee, il due volte vincitore della coppa Elgin, trionfatore della Vanderbilt e già podista ad Indianapolis nel 1911 e 1915 che aveva appena ottenuto la cittadinanza statunitense, scrutò da dietro l’ex portiere di hotel e corridore in bicicletta dell’Ohio a bordo del suo bizzarro veicolo a motore. L’odiato individuo che era diventato favolosamente ricco qualche anno prima per i suoi ridicoli spettacoli di barnstorming, “gareggiando” contro un biplano in occasione delle fiere rurali e che gli aveva precluso la partecipazione all’Indy 500 giusto l’anno prima, votando contro la sua ammissione con i documenti presentati in ritardo, a causa di un disguido amministrativo. Difficile prenderlo sul serio a bordo del suo ultimo arnese, non fosse per il semplice dettaglio di averlo fatto costruire con spesa significativa da niente meno che Harry Miller, il leggendario ingegnere e carrozziere di Los Angeles che aveva messo mano, in un modo o nell’altro, alla maggior percentuale di vetture costruite su misura capaci di vincere un importante titolo dall’inizio del conflitto mondiale. Più simile a una nave spaziale che ad una vettura, completamente chiusa quasi il suo pilota avesse paura di bagnarsi in caso di pioggia! Affusolata, angusta ed appuntita quanto un sommergibile per meglio lasciar “correre l’aria”, un concetto a dire il vero ancora poco chiaro a molti uomini di quel selvaggio settore. Quindi ancora una volta, superato l’apice della svolta, l’immigrato cerco di sorpassarlo lasciando ruggire il suo potente motore, ma ad un tratto comprese qualcosa di spiazzante: il modo in cui l’avversario affrontava le curve era semplicemente diabolico, ma soprattutto impossibile da emulare in un veicolo più pesante, come il suo. Quello che lo aspettava, in quel fatidico luglio del 1917, era una serie di cocente sconfitte. Indipendentemente dal suo stile di guida.
Ciò che non tutti avevano necessariamente compreso in effetti, dinnanzi alla prima vettura chiusa e aerodinamica nella storia dell’automobilismo sportivo, era quale significativo vantaggio derivasse dall’avere una cabina chiusa nella fondamentale questione d’insinuarsi attraverso un fluido non del tutto privo di massa, l’aria stessa che siamo comunemente abituati a respirare. Portando a concentrarsi la stampa e gli spettatori sull’aspetto, comunque rilevante, della sua migliorata sicurezza di guida, vista la presenza senza precedenti di un corpo d’alluminio avvolgente, capace di sopravvivere a quel tipo di cappottamento che tendeva a portare, nella stragrande maggioranza dei casi, ad un incidente letale. Come quello che era costato la vita, soltanto l’anno prima, al celebre pilota e rivale d’entrambi, l’appena trentunenne Bob Burnam…
Una vita al limite e solennemente consacrata all’ottenimento di quel valore oggettivo e inimitabile, la velocità sfrenata anche a discapito della sicurezza di veder tramontare il sole. Così il giovane proveniente da Imlay City, Michigan ottenne vari piazzamenti significativi in giro per il paese, fino al risultato notevole della sesta posizione nella Indy 500 del 1915. Un buon trampolino di lancio verso la celebrità indefessa, che tentò di perseguire l’anno successivo a Corona (California) quando uno pneumatico della sua Peugeot esplose, causandone il capovolgimento a velocità sostenuta. Un incidente a cui sarebbe stato possibile sopravvivere con un’adeguata rollcage, un casco e una costruzione maggiormente solida del telaio. Ma poiché Bob Burnam non poteva disporre di nulla di tutto questo, sarebbe andato incontro alla propria morte assieme al suo meccanico e co-pilota, un poliziotto in servizio e tre spettatori. Altri cinque riportarono ferite gravi. Una notizia meno epocale di quanto si potrebbe pensare, per discipline come queste dove la sicurezza risultava un miraggio distante, ma abbastanza grave da colpire profondamente Oldfield, che all’epoca coltivava una proficua amicizia con Miller e disponeva di 15.000 dollari da spendere, grosso modo corrispondenti a 343.000 dei nostri giorni. I due decisero quindi di mettere mano al problema fondamentale dello sport più sfrenato del pianeta, costruendo un veicolo che potesse resistere a qualsiasi tipo d’incidente immaginabile, più altri a cui nessuno aveva ancora pensato. Dal che nacque una vettura relativamente compatta dal peso di 730 Kg, con un motore da 4,74 litri per 136 cavalli di potenza (un rapporto non insolito per l’epoca) e 2950 rivoluzioni al minuto, approfonditamente testato in un’avveniristica galleria del vento. Questo perché l’oggetto misterioso, soprannominato quasi subito come il Sottomarino Dorato, disponeva anche di una cabina di alluminio dipinto con lacca e polvere di rame, che avvolgeva e copriva totalmente l’angusta cabina di guida. Tanto diversa, in effetti, dalla moderna concezione dello stesso approccio progettuale, da trovare l’unica modalità per guardare innanzi di una serie di sottili finestrini orizzontali, suddivisi da una decina di pilastri al fine di massimizzarne la solidità in caso di cappottamento. Un vero fulmine a ciel sereno, o almeno così si narra, tanto che Oldfield fu riportato affermare in almeno un’occasione che fosse tanto formidabile da sembrare quasi di stare barando, ogni volta che varcava la linea di partenza. Dopo un esordio non proprio brillante, quando il 17 giugno del 1917, essendosi qualificati per una gara di 250 miglia a Maywood, i due videro il motore del veicolo cedere dopo appena un terzo del tragitto, dovendosi necessariamente ritirare dalla competizione.
Nessuno sa esattamente, a quel punto, cosa abbia generato l’effettiva idea di mettere Oldfield con la Submarine in competizione diretta ed “amichevole” con il nemico giurato proveniente da Biccari, in provincia di Foggia, benché non sia del tutto irragionevole immaginare uno o più commenti ingenerosi nei confronti dell’insolita vettura. Ciò che pressoché nessuno, meno che mai costui si sarebbero aspettati, fu tuttavia la reiterata e confermata vittoria del celebre pilota dedicata all’amico defunto, nonché destinata ad essere soltanto la prima di una lunga serie. Su 54 gare a cui avrebbe partecipato nel corso dell’anno a venire, con al volante lo stesso Oldfield o altri esperti guidatori, il Sottomarino avrebbe infatti conseguito 20 vittorie, 2 secondi e 2 terzi posti. Fino alla sospirata iscrizione e qualifica nell’Indy 500 del 1919, da cui dovette tuttavia ritirarsi, ancora una volta, per un guasto al motore. Eventualità oggettivamente tutt’altro che rara all’epoca di questi eventi.
Nonostante o forse proprio grazie alla sua rinomata solidità, la Golden Submarine sopravvisse anche a diversi incidenti. Come la volta in cui perse una ruota e finì dentro un lago, portando quasi all’annegamento di Oldfield. O la maniera in cui a Springfield, Illinois, più tardi nella stessa stagione a causa di un urto accidentale con le barriere della pista subì una perdita di benzina che si trasformò immediatamente in un incendio, con il pilota bloccato all’interno e che arrivò molto vicino a perdere la vita, a causa della rottura dell’unico sportello da cui avrebbe dovuto lanciarsi fuori in cerca di aiuto. Episodio a seguito del quale Oldfield giurò che non avrebbe mai più guidato un’auto da corsa con l’abitacolo chiuso, ritornando a preferire l’approccio, e con esso una tipologia di pericoli di tipo tradizionale. Ciononostante continuò a far correre il Sottomarino con piloti terzi come Waldo Stein e Roscoe Sarles, fino a quando, nel 1918, la vettura scomparve e venne ritirata dalle corse per motivi largamente ignoti, senza mai ricomparire in alcuna collezione pubblica di automobili costruite in all’inizio del secolo scorso.
Quasi ogni ripresa o fotografia disponibile della Submarine su Internet vede infatti come protagonista una delle due repliche più famose della vettura, costruite rispettivamente da Dale Bell e Robert “Buck” Boudeman’s, la prima dotata di un motore moderno adatto alle dimostrazioni pratiche, come durante l’annuale Goodwood Festival of Speed britannico, mentre la seconda risulta dotata di un autentico, ma meno performante ed affidabile impianto d’epoca proveniente dalla stessa storica officina di Harry Miller. Una letterale “macchina del tempo” dunque, oltre che della trasformazione del carburante in quel fluido semi-leggendario che rendeva le miglia scavalcabili in un sol balzo. E gli uomini a bordo degli eminenti e formidabili giganti, con vicende destinate ad essere narrate attorno al fuoco dell’Invenzione per l’intero scorrere residuo del nostro secolo. E molti altri, perché no, a venire.