Per ogni grande eroe popolare, affinché sia possibile crearne la leggenda, è assolutamente necessaria la figura di un potente antagonista. E il conquistador Pedro de Alvarado, uomo carismatico ed appariscente, crudele, magnifico ed un pessimo governatore delle sue gloriose conquiste, fu il peggior nemico possibile dell’intero popolo del Guatemala. Finché verso la prima metà del sedicesimo secolo, durante il suo ennesimo assalto contro i territori un tempo appartenuti al grande impero dei Maya K’iche, non gli si parò dinnanzi qualcuno all’altezza della sua ben nota e arci-temuta perizia guerriera: niente meno che Tecun Uman, il capo tribale riconoscibile dallo sgargiante copricapo fabbricato con le piume del suo nahual (animale guida) l’uccello consacrato al dio di tutte le arti e la conoscenza, il serpente volante Quetzalcoatl. Così sollevando il proprio arco ed una singola freccia, egli riuscì a scoccarla contro il petto dello stallone iberico suo nemico, avvicinandosi per completarne l’uccisione a viso aperto. In quel momento ritrovandosi distratto dall’apparizione di una mistica fanciulla, identificata a posteriori come la vergine Maria, il campione della libertà fu colpito alle spalle con la lancia da un luogotenente di nome Argueta, rovinando in terra assieme alle speranza della sua gente. Ma in punto di morte il volatile a cui aveva consacrato gli ultimi gesti della sua valorosa esistenza, scendendo agile dalla canopia sovrastante con un lungo mantello che oscillava in aria, si posò delicatamente sul corpo martoriato dell’eroe. E macchiando il proprio petto con il sangue, assunse l’attuale aspetto della sua livrea: verde brillante, nero e rosso sul davanti, di un color vermiglio che ricorda un lungo tramonto. Il che non vuole significare, neppure in senso allegorico, che il quetzal o trogone splendido sia sporco e che tale caratteristica sia diventata in qualche modo ereditaria. Bensì che tale uccello fece la sua scelta, in modo consapevole, di trasformarsi nell’emblema di un qualcosa di perduto e di cui il proprio paese attende ancora il sacrosanto ritorno. In effetti, così è narrato, egli non avrebbe più lasciato uscire nessun suono dal suo becco piccolo e appuntito. Almeno finché gli stranieri non avessero lasciato… L’ancestrale suolo del Guatemala. Il che costituisce, da un punto di vista chiaramente verificabile, una sostanziale quanto apprezzabile esagerazione: giacché in molti hanno sentito in queste terre, particolarmente durante la stagione degli amori, il canto melodioso e ripetitivo dei quetzal in cerca di una compagna o intenti a definire i limiti del proprio territorio. Agli uccelli, spiriti liberi per naturale eredità, raramente importa di essere dei simboli per gli uomini e le donne di un’intera nazione…
Poche altre creature naturali, d’altra parte, possono dirsi rilevanti per la cultura e società di una particolare etnia al pari di questo volatile straordinariamente riconoscibile e distintivo, diffuso fino agli ombrosi recessi del Costa Rica. Le cui piume venivano considerate, all’epoca dei tardi imperi dei Maya e degli Inca, più preziose della giada stessa, costituendo uno dei principali simboli del potere terreno. Campeggiando in alti copricapi o veri e propri diademi, indossati unicamente dai grandi sacerdoti e membri della famiglia reale, per cui gli uccelli venivano catturati e le loro magnifiche code sottoposte a delicata e attenta spuntatura, prima di essere rigorosamente liberati nel proprio legittimo ambiente d’appartenenza. Giacché nessuno degli indigeni del Nuovo Mondo, fino alla venuta degli europei, avrebbe ucciso intenzionalmente un membro della specie destinata a diventare nota come Pharomachrus mocinno, troppo vicino ad essere un simbolo vivente del più amato membro del loro variegato pantheon divino. Posizione di preminenza in cui ancora si trovava nel 1832, anno della sua scoperta e classificazione ad opera del naturalista messicano Pablo de La Llave, che decise di dedicare la seconda parte dell’epiteto al suo mentore José Mariano M. Mociño, mentre la parte etimologicamente greca significava letteralmente “lungo mantello”. Un chiaro e comprensibile riferimento alla splendente coda tripartita, capace di raggiungere nei maschi la lunghezza dei 75 cm, tanto più eccezionale quando si considerano gli appena 40 misurati dal resto dell’uccello. Comunque sufficienti a risultare il più imponente dei trogonidi, una famiglia dalla collocazione tassonomica non del tutto chiara e possibilmente imparentata con gli “uccelli topo” (fam. Coliidae) dell’Africa subsahariana. Laddove le femmine, più piccole, dalla coda priva di piume extra-lunghe e sensibilmente meno sgargianti nelle proprie tonalità cromatiche, furono per lungo tempo poste a margine nei cataloghi illustrati delle scoperte biologiche del Nuovo Mondo. Almeno finché studi etologici più approfonditi non dimostrarono la natura monogama e territoriale delle coppie di tali volatili, inclini a suddividersi l’incombenza di covare le uova nel nido, generalmente ricavato nel cavo di un alto albero della foresta, talvolta scavato o allargato dall’inquilino stesso. Mentre la controparte di occupa di procacciare il cibo, costituito in larga parte da frutta non del tutto matura, semi e germogli. Non che l’uccello disdegni, in condizioni normali, la cattura d’insetti, piccoli mammiferi e lucertole, completando il quadro di una creatura onnivora a tutti gli effetti. Finché la quantità di uova bluastre che va da uno a tre non si schiude dopo un periodo di 17 giorni, iniziando un periodo di tutela ed educazione portato avanti dal padre, mentre la femmina tende ad ignorare totalmente la sua stessa prole. Forse un tratto evolutivo finalizzato a facilitare il recupero delle energie impiegate? Ci vorranno quindi ulteriori 21-35 giorni affinché i nuovi nati, muovendosi progressivamente verso il foro d’ingresso del nido, spicchino finalmente il volo. Diventando, da ogni punto di vista rilevante, perfettamente in grado di badare a se stessi.
L’associazione folkloristica e la leggenda usata al fine di associare il quetzal alla libertà ha d’altronde una base concreta che potremmo definire piuttosto triste. Pare infatti che non appena gli europei conobbero la sfolgorante magnificenza di queste creature, multipli esemplari cominciarono ad essere catturati al fine di essere inseriti in una gabbia per poter abbellire le loro dimore. Ma ogni singolo uccello, una volta portato fuori dal suo ambiente naturale, moriva nel giro di pochi giorni, alimentando l’idea di una creatura che sarebbe morta, prima di perdere il diritto all’assoluto e incontrastato arbitrio del suo domani. Un fenomeno, ad oggi, dall’origine piuttosto chiara: pare infatti che l’acqua fatta circolare all’epoca negli acquedotti della società civilizzata fosse, ahimé, eccessivamente ricca di ferro, una sostanza nociva per questi volatili dall’organismo delicato. Tanto che ancora oggi, i pochi zoo che ne espongono esemplari prestano una particolare cura nel rifornirli di adeguati supplementi ed acido tannico, necessari ad eliminare tale sostanza che altrimenti tenderebbe a risultargli letale.
Per una fine particolarmente improvvida, proprio perché priva del significato mistico vantato dal destino dei grandi eroi. Come Tecun Uman in persona, che in alcune versioni della sua leggenda, venne trasformato dopo la sua morte anch’egli in un quetzal o un’aquila, dal capo ornato da tre corone differenti: d’oro, di diamanti e di smeraldo. Una via di fuga poetica per il suo spirito, che ancor più sarebbe utile in tal modo a dare un senso alle speranze di riscossa del popolo del Guatemala. Il cui esito, difficile negarlo, è oggi sotto gli occhi di chiunque.
Ancorché sia pur sempre possibile, nel regno delle favole ed arcane mitologie, una speranza di riscossa finale. Dopo tutto è altamente probabile, sulla base dei dati in nostro possesso, che il trogone non abbia mai interrotto la sua canzone…