È tutto straordinariamente chiaro, nella visione popolare/folkloristica dell’intera faccenda. In un’epoca remota soggettivamente variabile, un gruppo di alieni rettiliani si è incontrato con la popolazione indigena dei nativi dell’attuale West Virginia. Comunicando grazie alla telepatia, ha quindi inviato loro un’immagine del grande rettile cosmico, con la sua pelle ricoperta di uno strato di scaglie ortogonali. Trasmettendo quindi nella loro psiche immagini delle piramidi d’Egitto, un’altra loro opera per lungo tempo sottovalutata, le creature extraterrestri hanno tentato di creare i presupposti per un nuovo tipo di linguaggio basato sul magnetismo universale. Simile ai geroglifici, ma maggiormente funzionale nella creazione di speleogrammi o geodisegni destinati a durare plurime generazioni a venire. Purtroppo, tuttavia, l’esperimento era destinato a fallire e nell’assenza di una comprensione del progetto, i figli di quel continente dimenticarono la tecnica per leggere le necessarie istruzioni. Così la grande stele, pietra di volta di un arco mai realmente edificato, diventò soltanto l’incompleto esempio di quello che avrebbe potuto essere, il rimpianto malinconico di un’ulteriore culla della civiltà, mai nata…
Fantasioso, nevvero? E almeno in parte agevolato, come desumibile dai limitati materiali della trattazione, dalle interminabili giornate fanciullesche trascorse in mezzo ai boschi trascorse da diversi membri della famiglia Bishop, la cui matriarca fu la responsabile di aver scoperto (o ri-scoperto?) al principio degli anni ’30 l’esistenza del sopra citato punto di riferimento, tanto distintivo quanto unico, anche nel panorama geologico potentemente diversificato del Nuovo Mondo. Macigno alto almeno 3 metri e mezzo, del peso stimabile intorno alle 30 tonnellate, la cui caratteristica predominante è il singolo lato apparentemente tappezzato da un pattern irregolare a nido d’ape, con angoli vertiginosamente retti e dall’origine chiaramente indotta da un’intento, o serie di processi dall’elevato grado di distinzione. Il che gli valse il soprannome di “Roccia Indiana” come amava chiamarla tale donna, che nel corso della propria vita amò mostrarla a chiunque visitasse la vicina cittadina di Shaw, prevalentemente abitata da boscaioli e minatori delle vicine pendici dei monti degli Appalachi. Al punto di massimizzarne la fama in lungo e in largo e motivare anche la visita di una delegazione dei geologi del Corpo degli Ingegneri Statunitensi, ancor prima che un fato inaspettato si abbattesse su questa moderna comunità affine all’antica Atlantide dei mari dimenticati. Quando negli anni ’80, per decreto dei vertici amministrativi dello stato, venne decretato che lungo il corso dell’affluente locale del grande Potomac sarebbe stata costruita una diga. Tale da creare un bacino idrico artificiale, i cui confini si sarebbero estesi ben oltre quelli del centro abitato e fino alla radura della grande pietra. Naturalmente la generazione successiva della famiglia Bishop, a quel punto, si era già trasferita da tempo assieme alla stragrande maggioranza degli abitanti di Shaw (il resto, per forza di cose, li avrebbe di lì a poco seguiti) ma per questo singolare pezzo di storia e del paesaggio locale, sembrò che fosse possibile fare qualcosa in più. Così che Ms. Betty Webster Bishop, figlia dell’originale scopritrice, nel settembre del 1984 scrisse una lettera per raccontare la sua storia alla rivista del Saturday Evening Post. Il che fu l’inizio di un nuovo capitolo nella lunga, lunghissima storia di questa pietra…
Nessun resoconto sull’origine di quella che sarebbe riornata celebre di lì a poco con il soprannome di Waffle Rock, con riferimento al popolare dolce cucinato alla piastra per la prima colazione, può dunque fare a meno di risalire fino alla remotissima Preistoria. O per essere maggiormente precisi, il periodo dell’orogenesi alleganiana, quando una delle catene montuose più importanti di tutta l’America Orientale iniziò a prendere forma, per l’effetto dell’impatto tra le proto-placche continentali dell’Euramerica e del Gondwana. Tra immagini di dinosauri di varia foggia e misura, entusiasticamente citati nel testo di un memorabile articolo sullo stesso argomento del ranger locale Norm Dennis, spesso citato nelle trattazioni online del distintivo agglomerato costituito in larga parte di arenaria. Che al tempo non era posto in alcuna particolare posizione evidenza, facendo bensì parte di un’intero strato geologico noto come gruppo di Conemaugh. Fu dunque a cavallo tra i periodi del Carbonifero e del Permiano, a quanto possiamo desumere, che il minerale in questione cominciò ad assumere una colorazione rossastra trasformandosi in alite salina, a causa del generoso apporto di acqua marina, mentre le possenti forze in gioco continuavano a spingerlo sempre più in alto, causando una notevole quantità di spaccature note in questo settore come processo di boxwork erosion (e. scatolare). Ciò almeno finché in un’epoca irrimediabilmente ignota, un pezzo della montagna si ritrovò esposto come una struttura sporgente simile a una mensola, per poi spezzarsi a causa dell’effetto della forza di gravità. Il che avrebbe trasformato la materia prima della nostra roccia in quello che viene convenzionalmente definito un errante, o macigno destinato a rotolare verso valle, finendo per costituire un unicum nel tutto del paesaggio sottostante. Ciò che ebbe a verificarsi nei lunghi anni a venire, d’altra parte, non è totalmente privo di precedenti nella scienza geologica, anche se con pochi esempi alternativi a cui fare riferimento: giacché all’interno del reticolo delle suddette fessure, un processo naturale di percolazione cominciò a lasciar filtrare generose quantità di ossido di ferro, provenienti dai sedimenti del vicino Potomac River. I quali formarono in maniera del tutto naturale una forma di cemento estremamente resistente all’erosione, come nel processo del kintsugi, o tecnica decorativa giapponese creata a partire da oggetti di ceramica infranti. Per l’effetto della pioggia battente e gli altri agenti di erosione atmosferica, infine, la superficie esposta della roccia a base di arenaria continuo ad erodersi per lunghi secoli, fino a lasciare ben visibile l’attuale disegno “inspiegabile” della sua superficie. E così recita la spiegazione ufficiale, notoriamente offerta nel pamphlet a supporto redatto dal geologo Martin W. Walsh Jr, colonello del Corpo degli Ingegneri coinvolto nella storia attorno a quel fatidico anno 1985.
Per tornare all’imminente allagamento dell’intera comunità locale, insieme al reperto insostituibile di questo pezzo di storia geologica della West Virginia, fu dunque implementata per tempo l’iniziativa atta a trasferire il macigno in posizione sicura, affinché non finisse sommerso o potenzialmente seppellito dalla terra della diga stessa. Fino alla posizione che attualmente occupa ancora oggi, di fronte al centro visitatori e punto panoramico per il coincidente lago artificiale Jennings Randolph, così chiamato in onore del senatore che, quasi un trentennio prima, aveva agevolato questo ed altri progetti per il miglioramento infrastrutturale delle zone più selvagge di questo stato. E tutto ciò non senza l’indubbio onore di vedere un pezzo della pietra sottoposto all’attento prelievo e spostamento presso l’entrata del quartier generale dell’Istituto Geologico degli Stati Uniti a Reston, WV.
Suscitando la reiterata e verbosa curiosità dei visitatori occasionali, in buona parte già forniti di un’idea fin troppo chiara su cosa e come un simile oggetto abbia potuto materializzarsi. Tra i detriti e rami temporali che galleggiano in un mare di effettive possibilità latenti.