Un dedalo dove neanche il re di Atene avrebbe scelto volontariamente di avventurarsi, a meno di avere un’ottima ragione per farlo. Ma il kaiser Guglielmo I non era Teseo e mancava una Penelope a Parigi, durante l’assedio del 1870-71 che portò a grandi privazioni, sanguinosi scontri e la cattura dell’imperatore Napoleone III. Così dovette sembrare del tutto ragionevole la rinuncia, da parte delle formidabili truppe prussiane, a mettere piede nel sobborgo semi-rurale di Montreuil, dove un migliaio di minotauri avrebbero potuto sbucare tra succose pesche coltivate “a spalliera”. Una visione senza dubbio singolare ed altrettanto celebre grazie agli occasionali articoli di giornale e cartoline provenienti dalla città delle luci, proprio perché associata al marchio omonimo di frutta normalmente riservata alla borghesia, i nobili e i comuni cittadini. Nel primo esempio di un prodotto democratico, proprio grazie alla sua spropositata abbondanza. Ed il segreto era esattamente quello: un intero quartiere cittadino percorso e segmentato non dalle sue strade, bensì barriere in muratura per un totale di 600 Km e 2,70 metri d’altezza media, utilizzati per sconfiggere il più temuto dei nemici storici della coltivazione nei frutteti: l’invincibile ed inarrestabile generale Inverno. Particolarmente inviso nell’intero periodo tra il XIV e il XIX secolo, quando l’Europa venne condizionata da un periodo di mutamento climatico destinato ad essere chiamato la Piccola Era Glaciale (PEG) con le temperature medie terrestri calate di fino a 2 gradi Celsius. Ma fino al doppio o triplo di questi nei mesi freddi e nell’emisfero settentrionale, in modo più che sufficiente a dare un colpo significativo alla produzione sistematica di frutta di una certa fragilità ecologica, ovvero qualsiasi albero non fosse un melo o pero creati appositamente per resistere al vento gelido degli ultimi giorni. Fu dunque questa una lunga epoca di rinunce, ma anche incline a favorire sperimentazioni particolarmente fervide, come l’iniziativa documentata per la prima volta e in via preliminare in Svizzera nel 1561, da parte del botanico Conrad Gessner che aveva notato la maniera in cui la vicinanza ad alti e spessi muri di mattone potesse favorire la crescita di alberi di fico e datteri importati dal meridione. Coniando di fatto il termine di “frutteto murato” destinato ad entrare nel linguaggio comune al fine d’identificare un nuovo e particolarmente utile tipo di fortezza costruita dall’uomo. Capace di resistere, come dicevamo, agli elementi impietosi ma di farlo in modo particolare grazie ad un comportamento della termodinamica che giusto qualche secolo a questa parte iniziava ad essere compreso in modo razionale piuttosto che individuato principalmente grazie all’istinto dei coltivatori. Sto parlando, è inutile specificarlo, della maniera in cui una parete esposta a nord tendesse progressivamente all’accumulo dell’energia solare nel corso delle ore diurne, per poi procedere al rilascio di quel calore dopo il sopraggiungere del tramonto. Un muro per la frutta era per questo in grado di agire alla maniera di un condizionatore naturale. Permettendo di rendere reale quello che, fino all’introduzione di quel meccanismo, era rimasto un puro e semplice appannaggio dell’immaginazione…
Il frutteto murato, sebbene potenzialmente inventato al confine alpino dell’Europa meridionale, fu per la maggior parte impiegato con successo in territorio francese ed inglese, dove i giardinieri appresero ben presto le modalità ideali per trarne il massimo vantaggio produttivo. Viene stimato a tal proposito come il solo labirinto di Montreuil potesse giungere a produrre al proprio apice durante la seconda metà del XIX secolo, nel corso di un singolo anno, la quantità semplicemente impressionante di 600 milioni di frutti. Ed un secondo polo almeno altrettanto produttivo si trovava a Thomery a 60 Km dalla capitale, dove sull’esempio delle mura coltivate della celebrata reggia di Versailles i coltivatori locali avevano costruito barriere con l’argilla, sovrastate da una copertura di paglia alte 3 metri, lunghe fino a 100 e distanziate tra di loro di una decina, per lasciare il giusto spazio nelle intercapedini ai filari d’alberi di varia natura. Tale ambiente e il suo speciale microclima si sarebbe trasformato d’altra parte negli anni a partire dal 1840 nel sinonimo di una varietà di uva particolarmente pregevole ed il vino che derivava, disponibile per la vendemmia diversamente dalle alternative anche nel periodo maggiormente prossimo al cambiamento della stagione. Nei Paesi Bassi e nelle Isole Britanniche, allo stesso tempo, l’approccio utilizzato per sfruttare la stessa tecnologia assunse una modalità architettonica di tipo differente, fondata sull’impiego del cosiddetto muro serpentino o crinkle crankle (zigzagante) la cui pianta ondulatoria poteva permettergli di risultare resistente al crollo pur utilizzando un singolo filare di mattoni. Comunque sufficiente all’interscambio termico necessario per tale tipologia di coltivazioni, offrendo inoltre il valore aggiunto delle numerose intercapedini entro cui posizionare gli alberi da frutto, così protetti ancor meglio dall’azione del gelo e delle intemperie. Un altro accorgimento era quello d’impiegare mura orizzontalmente inclinate, favorendone la ricezione d’ingenti quantità di preziosi raggi solari. Simili soluzioni, pur non essendo in genere adottate in grandi industrie come fatto in territorio francese, entrarono ben presto a far parte dello stile architettonico dei giardini privati, con l’impiego di barriere non più concepite al solo scopo d’interdire l’accesso da parte a persone o animali, bensì massimizzandone l’esposizione e conseguente irradiazione del calore di mezzogiorno. Spostandoci ancor più a settentrione, d’altronde, gli inglesi a nord di Londra cominciarono a integrare nelle mura dei propri frutteti un particolare tipo di camino utilizzato come fonte di riscaldamento artificiale, in maniera non del tutto dissimile dalle soluzioni usate storicamente nell’Asia Orientale, particolarmente in Cina e Corea.
Dovete considerare a tal proposito come nell’Europa tarda e post-Rinascimentale non esistesse, diversamente da quanto si potrebbe pensare, un sistema realmente efficace per produrre grandi quantità di vetro in lastre sufficientemente ampie da costruire una serra. Ed in effetti i primi esperimenti moderni in qualche modo riconducibili a tale concetto, già noto fin dai tempi dell’Antica Roma, avrebbero tardato a palesarsi con i primi esempi noti soltanto nei primi anni del 1800, nella regione olandese di Westland, dove i coltivatori iniziarono a sperimentare l’utilizzo di barriere inclinate con tanto d’infissi apribili, convenientemente adagiate alla struttura verticale del muro pre-esistente. Un esempio spesso citato di tale approccio è rintracciabile presso il palazzo di Sanssouci a Potsdam, capitale del Brandeburgo, fatto costruire nel 1745 dal re di Prussia Federico Guglielmo IV e celebre per le sue coltivazioni di una pregevole varietà d’arancio. La cui disposizione a spalliera lungo le mura perimetrali della reggia iniziò a beneficiare, a circa mezzo secolo di distanza, di numerosi pannelli di vetro simili a portali obliquamente disposti, capaci di favorire la crescita degli alberi mantenendoli al tempo stesso protetti dal clima alquanto rigido dell’Europa Centrale. Soltanto in seguito e con il trascorrere d’ulteriori lunghe decadi, la diffusione dei carburanti fossili ed il conseguente calo di costi per l’impiego continuativo del riscaldamento avrebbe favorito, a partire dai Paesi Bassi, la diffusione di un nuovo tipo di serra costruito questa volta totalmente in vetro, del tutto priva di capacità d’isolamento termico ma capace d’incrementare esponenzialmente l’esposizione solare delle piante all’interno. Per non parlare dei trasporti rapidi ed al lunga distanza, capaci di favorire la distribuzione di frutta tipica dei climi caldi anche in paesi geograficamente distanti. Fu la fine dei frutteti murati e ciò che ancora oggi, nonostante tutto, potrebbe tornarci utile: un sistema per ridurre le emissioni implicate da un reparto ortofrutticolo all’interno di un singolo supermercato. Del tutto paragonabili a quelle necessarie per produrre carne bovina o suina, laddove in epoche relativamente recenti nulla di simile avrebbe mai avuto ragione di verificarsi. Ma il consumo di cibo prodotto localmente, resta largamente noto, non è approccio propriamente affine all’epoca post-moderna. Dove lusso e vita quotidiana avanzano di pari passo, senza lasciarsi condizionare in modo particolarmente estensivo delle possibili conseguenze sul clima del domani. Dopo tutto, un domani, potremo sempre costruire serre più grandi… Giusto?