Così ordinato, così perfettamente regolare ed apprezzabile nella sua semplicità multicolore: difficile non essere colpiti dall’eccezionale precisione dell’elegante modello grafico, utilizzato nella tipica rappresentazione da sussidiario della stratigrafia terrestre. In primo luogo, la crosta: due centimetri appena, simile per lo spessore ad una buccia d’arancia. Subito seguita dal mantello, corposo strato suddiviso in due parti: superiore ed inferiore. Così come ancora sussistono i due sapori del gradiente per il nucleo “esterno” liquido contrapposto a quello “interno” metallico, sebbene sia un modello giudicato ormai obsoleto in diversi ambienti. Il che è costituisce concessione d’altra parte molto meno significativa, rispetto a quella della stessa compartimentazione di ciascun segmento. Non vi è mai sembrato, d’altra parte, bizzarro? Che la natura della mineralogia, così sfumata e imprevedibile, potesse in un modello su scala maggiore rispettare le apparenti direttive di un demiurgo fondamentale dell’Esistenza… Piuttosto che lasciar fluire la materia da uno stato all’altro, in un ciclo continuo d’interscambio simile a quello delle acque o l’aria di superficie! Poiché l’albero che cade produce lo stesso un rumore. Anche se nessuno può riuscire ad osservare il flusso quantico delle sue microparticelle… Direttamente. In questo tende a palesarsi, dunque, l’intrigante utilità del metodo scientifico, che desume l’instaurarsi dei processi di causa ed effetto sulla base di elementi trasferiti nello spazio dello scibile a portata, per così dire, di mano. O come in questo caso, all’interno di uno strumento che può entrare in quello stesso palmo al centro delle cinque dita a raggera. Chiamatelo e chiamiamolo per questo, come fanno tutti gli altri fin da quando fu inventato negli anni ’50, DAC (Diamond Anvil Cell o Cella-Incudine a Diamante) per la mera ed apprezzabile composizione dei sue due elementi primari. Due gemme appartenenti, per l’appunto, al vasto catalogo delle forme allotropiche del carbonio, del tutto arbitrariamente e globalmente considerate tra le più preziose che possano far parte di un gioiello dei nostri giorni. Per un’idea di fondo largamente comprovata e funzionale allo scopo, poiché esistono due modi per riprodurre, ovvero simulare, l’incommensurabile pressione vigente nelle viscere della Terra: una grande forza, oppure una notevole concentrazione. Della spinta in un settore non più grande di 100-250 micron, situato nell’incontro tra i due culet o fondi piatti di altrettante pietre con un taglio cuneiforme. Fatte premere l’una sull’altra con una vasta varietà di modi possibili, tra leve pneumatiche, sistemi idraulici o viti girevoli all’interno di un meccanismo. Affinché una pressione di appena 5-6 Mbar possa ritrovarsi moltiplicata, nel diabolico implemento, fino a 550 gigapascal, grossomodo corrispondente al doppio di quella presente nelle profondità del nucleo terrestre. Ed una porzione alquanto significativa dell’energia idrostatica nelle profondità di Giove!
Stiamo parlando, in altri termini, di una potenza sufficiente a trasformare e modificare i comportamenti chimici della materia. Di fronte a cui gli stessi alchimisti medievali sarebbero rimasti affascinati, nella potenziale capacità immaginifica di creare metalli preziosi a partire da sostanze di nessun valore. Il che non si è ancora in realtà verificato, sebbene conclusioni altrettanto significative siano state realizzate nello studio della profondissima e invisibile geologia. Aspetti come la maniera in cui il silicato tipico del nucleo della perovskite non possa essere più chiamato tale al di sotto di un certo livello, avendo incoraggiato la coniazione del termine bridgmanite. Oppure la tendenza delle rocce di olivina presenti nello strato del mantello a diventare minerali dalle proprietà misteriose come la wadsleyite e la ringwoodite, una volta che si trovi trasferita dai flussi d’interscambio a profondità maggiori. Di particolare interesse, in merito a quest’ultima tipologia di sostanza, risulta inoltre essere la sua capacità di assorbire ed integrare copiose quantità d’acqua, in un processo forse alla base dell’antico inaridimento del pianeta Marte, ed innumerevoli altri del tutto simili a lui. L’osservazione approfondita dei campioni situati nell’incontro tra le due culet diamantate, nel frattempo, ha permesso la scoperta di nuove, importanti e potenzialmente utili fasi nelle scienze dei materiali, quali il ghiaccio x, una forma non liquida né solida del più familiare fluido necessario al vita, o ancora la maniera in cui carbonio, zolfo e idrogeno tendano ad assumere le caratteristiche di un superconduttore anche a temperatura ambiente, una volta sottoposti all’appropriata dose di gigapascal (non che simili pressioni siano maggiormente facili da mantenere per prolungati periodi rispetto al “semplice” raffreddamento di altre sostanze).
Il che ci riporta, nuovamente, alla questione basilare del funzionamento della cella ad incudine, che prevede per l’appunto la collocazione di un campione nella stretta intercapedine ricavata in un’apposito incavo tra le due gemme. La quale non fu sempre necessaria, o in alcun modo prevista, fin dagli albori di questa macchina, prodotta per la prima volta tra il 1957-58 da un gruppo di tre scienziati facenti parte dell’ente statunitense all’epoca chiamato NBS (National Bureau of Standards). Weir, Lippincott e Bunting, i quali si erano ispirati al precedente lavoro del celebre studioso e premio Nobel del 1946 Percy Williams Bridgman, che aveva creato un macchinario simile impiegando cunei di carburo di tungsteno. Non potendo d’altra parte accedere, diversamente dai suoi colleghi stipendiati dal governo, ad una fonte relativamente inesauribile di diamanti, in buona parte trasportata nei laboratori di Gaithersburg, Maryland a partire dai sequestri in giro per la nazione da contrabbandieri o altri venditori illeciti di tali gemme. Soltanto successivamente osservate in maniera sufficientemente approfondita, e regolarmente premute l’una sull’altra in modo niente meno che distruttivo, fino alla determinazione che l’aggiunta di un’incavo sulle due punte circondato da una guarnizione (spesso realizzata in metallo) avrebbe garantito l’opportunità di effettuare una più vasta selezione d’esperimenti. Tra cui quelli fondati sull’aumento di pressione in modo idrostatico ovvero non più meramente direzionale, tramite l’aggiunta di fluidi incomprimibili quali gas elio, neon, argon o nitrogeno.
Non soltanto ciò che luccica custodisce ad ogni modo il principale tesoro della sapienza, così come alcuni degli esperimenti più interessanti condotti con questa tipologia di macchinari può essere individuata nel settore stranamente confinante della biologia. Vedi quello condotto nel 2002 presso la Carnegie Institution di Washington, con colture di batteri di Escherichia coli e Shewanella oneidensis sottoposte a pressioni superiori di 16.000 volte a quelle della superficie terrestre. Riuscendo a dimostrare, dopo un simile evento traumatico, la capacità di almeno l’1% di essi di continuare a metabolizzare l’acido metanoico o formiato, dando in tal modo una prova (ragionevolmente) incontrovertibile della loro sopravvivenza. Il che potrebbe in altri termini aver dimostrato l’opportunità, per forme di vita simili, di sopravvivere al rientro atmosferico e l’impatto con il suolo di ampie varietà di pianeti possibili, offrendo un inaspettato sostegno alla teoria di confine della panspermia: la possibilità che singole forme di vita basiche, nell’incalcolabile passaggio dei millenni, possano aver colonizzato corpi celesti multipli venendo trasportate sull’onda dei venti solari la semplice spinta inerziale del cosmo. Ed allora chi può dire, veramente, quanti esseri senzienti ragionevolmente simili a noi possano aspettare soltanto l’opportunità di un incontro, avendo trascorso le loro lunghe decadi a far sbattere le rispettive gemme una sull’altra. Come i cavernicoli con i loro pezzi di selce, alla ricerca dell’ineffabile scintilla della creatività.