Mamma orsa guardò i suoi cinque orsetti uno dopo l’altro, pensando se fosse davvero il caso di proseguire in quella direzione. “Le costruzioni più grandi di uno stagno boschivo possono essere pericolose. Ma questa qui è… Diversa.” Priva di rumori, circostanze o abitanti particolari, sebbene di tanto in tanto fosse possibile osservare una delle grandi creature di metallo “parcheggiate” fuori dall’alta muraglia convessa, con i suoi occhi rettangolari intenti a scrutare verso gli alberi e la strada antistante. A dire il vero c’era un’automobile anche adesso, ma pareva convenientemente sopita. “E tutto sommato… Perché no. Potrà essere per loro un’occasione di crescita. Permettendoci allo stesso tempo di trovar rifugio, almeno per qualche decina di minuti, dal sibilo impietoso del vento!” Così l’esemplare adulto di Ursus arctos horribilis, il folto pelo marrone agitato come una criniera leonina, decise per una volta di fare strada, spingendo da una parte con la zampa il mucchio di detriti accumulatosi negli anni attorno all’uscio dalla porta convenientemente spalancata e parzialmente fuori dai cardini: bottiglie, lattine, qualche busta di plastica, pezzi di legno… Con incedere deciso e formidabile, la madre protettiva fece i primi passi dentro il cavernoso ambiente, osservando di sfuggita gli alti pali perpendicolari interconnessi l’uno all’altro, per formare l’equivalenza visitabile della vera volta di una cattedrale, costruita sulla base di calcoli matematici ben precisi. Non che un’orsa, come lei, potesse dire di conoscere effettivamente tali termini figli di uno stile alternativo del pensiero. In quel momento, tuttavia, annusò e sentì al tempo stesso qualcosa d’inaspettato al di sopra del persistente olezzo d’urina concentrato in molti luoghi costruiti dall’uomo. Nell’estremità opposta all’ingresso (questo ambiente, chiaramente, era del tutto privo di “angoli”) un esemplare alquanto giovane della stirpe bipede si stava svegliando, fissando uno dei suoi cuccioli con espressione preoccupata. Possibile che avesse trascorso qui la notte? Con quale pasto nello zaino, e perché? Adesso l’occupante si era messo a sedere, tirando fuori quello che sembrava essere un panino e spezzandolo a metà, mentre guardava con un mezzo sorriso verso il piccolo maggiormente vicino a lui. Gli altri parevano in effetti del tutto immobili e per uno strano scherzo del destino, momentaneamente in ombra alla stessa maniera della loro imponente genitrice. La quale ben capiva, ad un livello basico, che nessuno della sua famiglia si trovava attualmente in pericolo. Benché nulla in questa considerazione risultasse sufficiente a elaborare un tipo di comportamento alternativo. Chi toccava un membro della sua preziosa prole doveva essere distrutto. Con un profondo respiro per prepararsi all’univoca battaglia, mamma orsa sentì allora il sangue convogliato verso il suo lobo frontale cranico e dietro gli occhi spalancati ed attenti. Assieme ad esso, la rabbia… Poi un quieto senso di colpa, accompagnato dalla cupa soddisfazione.
Ci sono naturalmente plurime ragioni per non esplorare strani edifici dislocati in mezzo all’assoluto nulla fatta eccezione per la sottile striscia d’asfalto che si estende tra Anchorage e Fairbanks, in prossimità di stazioni di servizio abbandonate. E la principale tra queste è la presenza di un temuto superpredatore non del tutto benvolente per quanto concerne i possessori di documenti e chiavi di casa; l’imponente orso grizzly con la prole al seguito, che può risultare particolarmente problematico in estate. Oltre al resto dell’anno, s’intende. Il che non fu mai sufficiente né davvero preso in considerazione dall’ingegnoso costruttore di tutto questo, l’uomo dal nome di Leon Smith che dopo aver combattuto i giapponesi a Guadalcanal (così narra la biografia per niente ufficiale) decise di dar vita al suo sogno, costruendo una pompa di carburante lungo l’estendersi dell’Ultima Frontiera, da cui accumulare fondi sufficienti a costruire qualcosa di assolutamente inusitato: un resort-hotel, ma anche di per se un’attrazione turistica, incorniciata nel paesaggio unico delle grandi foreste e svettanti montagne del territorio alasakano. Con intento e una capacità di concentrarsi certamente fuori dal comune, benché dire che il progetto sia andato incontro a un “mero” fallimento potrebbe essere visto come il più scontato degli eufemismi. E il risultato, dopo cinque decadi, persiste imponente sotto gli occhi di tutti…
Il fatto che possiamo desumere a posteriori è che Smith era fondamentalmente una persona ottimista, o quanto meno una di quelle convinte che ogni problema potesse risolversi in corso d’opera, o che comunque fosse possibile trovare un compromesso con le autorità rilevanti. Una visione destinata a scontrarsi con la dura realtà quando gli venne segnalato come il suo edificio dalla forma estremamente singolare non rispondesse ad alcun tipo di nozione per quanto riguarda codici di sicurezza e piani regolatori. Con la forma di un igloo dal diametro di 32 metri e un’altezza pari a quattro piani, il resort risultava infatti costruito totalmente in legno isolato con uno spesso strato di poliruetano. Il che lo rendeva certamente antisismico ma anche incline ad incendiarsi con relativa facilità, una contingenza ulteriormente aggravata dalle sue finestre di gran lunga troppo piccole per permettere ai futuri ospiti possibili e possibilmente trasformati nell’equivalente involontario di una pentola di verdure cotte al vapore. Ma poiché Smith non era tipo da perdersi d’animo, egli avrebbe continuato a costruire il suo edifico con intento solitario ed indefesso, vivendo per oltre 40 anni nella piccola capanna situata tra l’insolito edificio e la pompa di carburante. Laddove proprio quest’ultima, nella sua idea di partenza, avrebbe dovuto fornire l’occasione di far funzionare il sito, prelevando una quantità di benzina sufficiente a produrre l’elettricità necessaria, grazie a generatori con il giusto livello di ridondanza. Se non che verso l’inizio degli anni ’90, ormai più che settantenne e con più di qualche caduta dovuta ai molti anni di lavoro alle spalle, Smith si rese conto come i prezzi aumentati del petrolio avrebbero senz’altro allontanato ancor di più il sogno della sua esistenza, portandolo ad un cambio di registro pressoché immediato: per garantire uno stile di vita idoneo a sua moglie, avrebbe venduto dunque l’igloo e le altre strutture circostanti, a qualcuno che potesse, un giorno, portare a termine l’idea di partenza. Quel qualcuno si sarebbe dunque rivelato essere il cinquatottenne Brad Fisher, presidente dell’azienda di famiglia Fisher Fuels nonché responsabile degli approvvigionamenti alla pompa di Smith ormai da parecchio tempo. Che si dimostrò entusiasta di pagare i 300.000 dollari richiesti, senza tuttavia comprendere esattamente l’impresa impossibile in cui si stava imbarcando. Troppo grande per essere demolito a un prezzo ragionevole ma anche ostico da portare al termine, con il suo interno ad oggi totalmente privo di alcuna parete divisoria, l’insolito hotel avrebbe dunque continuato a languire assieme alle vaghe speranze del suo compratore. Uno studio di fattibilità per l’ideale restauro, dal costo stimato superiore di gran lunga al milione di dollari, fu dunque l’ultimo chiodo sulla cassa funebre di ogni residua aspirazione. Lasciando all’orgoglioso e svettante, ma dolorosamente incompleto edificio, l’unica qualifica possibile di “gabinetto per gli orsi”…
Verso la metà degli anni 2000, quindi Fisher ricevette una lettera dalla figlia di Smith, dal tono accusatorio e che includendo una foto dell’igloo coperta di graffiti e con palesi segni di degrado affermava: “Lei deve fare qualcosa: il sogno di mio padre sta andando in malora.” La che l’imprenditore con casa a Wasilla, a tre ore di macchina dall’edificio solitario, decise a malincuore di metterlo in vendita. Per la cifra (relativamente) ragionevole di quanto lui stesso l’aveva pagato: tre centinaia di migliaia di dollari. Il che non scoraggiò, almeno in linea di principio, svariati possessori di progetti coerentemente bizzarri, tra cui risulta imprescindibile citare l’uomo che voleva farne il soggetto di un reality show, culminante con la sistemazione e riapertura di quella che nel frattempo era diventata famosa come Igloo City. Il coltivatore intensivo di marijuana, che ricordo essere legale in Alaska fin dal 2015 e l’intera famiglia fermamente intenzionata a trasformarla in una distilleria. Perché naturalmente non c’è niente di meglio che aggiungere i fumi dell’alcol, in un luogo già notoriamente soggetto ad un significativo rischio d’incendio latente. Ma ogni volta, dopo mesi di trattative, la realtà diventò lampante: nessuno di costoro aveva i fondi sufficienti ad acquistare il resort, che tutt’ora resta dunque disabitato. Fatta eccezione per gli occasionali praticanti di urbex selvaggio e la nutrita popolazione ursina dei dintorni. Possibilmente, o quanto meno auspicabilmente, mai allo stesso tempo. Benché ciò non possa essere garantito in alcun modo: gli orsi non possiedono i cellulari. E anche se ce li avessero, non c’è un sito Internet abilitato a prendere prenotazioni a nome dell’attuale gestore, per necessità di cose disinteressato all’immobile meno commercialmente utile al di sopra del 57° parallelo. Che neanche il vento, capace di erodere le montagne, sembra voler prendersi e portare via nel tragico universo periferico della non-esistenza.