Tra le pietanze più pregevoli citate nel De re coquinaria, ricettario del III-IV secolo d.C. basato sull’opera e la vita di Marco Gavio Apicio, celebre cuoco dell’epoca dell’imperatore Tiberio, un ingrediente tenuto in alta considerazione sembra essere una preziosa erba proveniente soltanto da una piccola regione dalla Cirenaica, grosso modo corrispondente all’attuale Libia orientale. Tagliato a pezzi, sminuzzato, trasformato in succo o messo crudo nelle salse, parrebbe esserci davvero poco in grado di rivaleggiare con il cosiddetto silphium, quella che per inferenza parrebbe essere stata una pianta ombrellifera del genere Ferula, appartenente alla stessa famiglia del sedano, le carote ed il prezzemolo. Proprio perché rimpiazzabile con la Ferula assa-foetida o concime del diavolo proveniente dall’India, dotata di alcune proprietà comparabili ma un gusto, e soprattutto un aroma decisamente meno invitanti. Eppure in base al resoconto di Plinio il Vecchio nel suo Naturalis historia (77-78 d.C.) ad essa restavano impossibili da replicare i benefici dell’originale, che includevano la cura della pleurite, l’epilessia, le infiammazioni, la calvizie, il mal di denti e addirittura i morsi di cane o le punture di scorpione. Potendo inoltre agire se assunto in quantità copiose come afrodisiaco e al tempo stesso, anti-concezionale (o abortivo) entrambe doti particolarmente desiderabili in particolari frangenti. “Tuttavia” continuava il grande storico: “È oggi sempre più raro poter disporre di questa pianta miracolosa, i cui prati d’origine vengono acquistati dai repubblicani avidi, che vi fanno pascolare capre o pecore causandone la distruzione. Tanto che ad oggi, il prezzo del silfio si avvicina ormai a quello dell’argento.” Il che introduce a margine della questione il punto maggiormente problematico: la maniera in cui, nonostante le significative ricerche condotte sull’argomento, non sappiamo e non possiamo disporre al di la di ogni ragionevole dubbio di questo miracoloso ingrediente. Da molti considerato la prima vittima storicamente riscontrabile del sovrasfruttamento ad opera dell’uomo, che potrebbe averne causato l’estinzione a causa del suo valore percepito, coadiuvato dall’impossibilità egualmente riscontrata di coltivarlo in cattività. Se non addirittura del mutamento climatico, a causa del progressivo inaridimento dell’intera regione del Maghreb. Fino al tragico momento, anch’esso raccontato nel testo di Plinio, in cui l’ultimo preziosissimo gambo venne offerto in dono a Nerone, che lo mangiò senza eccessive cerimonie ponendo il suggello all’irrimediabile capitolo finale di questa vicenda.
Incoraggiati dalla reputazione semi-leggendaria di una simile pietanza, tuttavia, diversi studiosi d’epoca contemporanea hanno esplorato la possibilità che il silfio possa ancora esistere e che semplicemente, ad oggi, siamo diventati incapaci di trovarlo perché non abbiamo compreso esattamente la sua natura. Uno tra questi è Mahmut Miski, professore di farmacologia all’università di Istanbul, convinto di averne ritrovato un’intera colonia in prossimità del monte Hasan, nella Turchia centrale…
Un’impresa che potrebbe offrirci un ponte significativo nella comprensione dello stato mentale ed i gusti gastronomici dei nostri antenati, per non parlare dell’iconografia di certi simboli, capaci di giungere invariati fino alle ultime propaggini della nostra Era. Una delle ipotesi maggiormente interessanti e collaterali alla faccenda, infatti, vedrebbe l’insolita morfologia dei suoi diacheni, i frutti bilobale di talune ombrellifere incluse le appartenenti al genus Ferula, come la F. communis detta ad oggi “finocchiaccio”, alla base del celebre sigillo della città di Cirene, corrispondente all’attuale centro abitato libico di Shahat. Capace di riconoscersi, dunque, nel simbolo che oggi associamo all’organo e il concetto del cuore, e quindi il sentimento dell’amore, per sua natura associato all’utilità presunta dell’originale pianta, considerata un dono d’Apollo e la cui consumazione risultava interconnessa in modo particolare all’attività di seduzione. Un tipo di valore, senza dubbio, sempre ricercato e che ancora oggi basterebbe a renderla altamente desiderata e molto presto una stimata esportazione del paese in cui potrebbe aver fatto la sua ricomparsa. Da qui l’idea, fondata sull’osservazione pratica iniziata nel 2012, del prof. Miski capace d’individuare alcuni tratti rivelatori nella Ferula drudeana, conosciuta dal mondo scientifico almeno a partire dall’anno 1909. Pianta nella quale, con approfonditi studi di laboratorio, è riuscito a dimostrare la presenza di una vasta serie di composti chimici, inclusi 30 metaboliti corrispondenti a quelli presenti nel carciofo, il rosmarino, il calamo aromatico, la salvia. Che così tutti riuniti, in un singolo condimento, avrebbero potuto costituire una possibile spiegazione delle sue presunte qualità di guarire ogni sorta di malattia o sofferenza. Altro aspetto da non sottovalutare, inoltre, la capacità di questa specie di crescere molto velocemente dopo la caduta di una pioggia battente, caratteristica citata anch’essa da Plinio (con l’aggiunta che le gocce dovessero essere, inspiegabilmente, “scure ed oleose”) incline a descriverlo come uno dei fattori mistici dello straordinario ingrediente. Per sua natura e come dicevamo quasi impossibile da trapiantare, una caratteristica a quanto pare condivisa dal suo discendente turco. Mentre altre associazioni citate dallo studioso appaiono relativamente soggettive, ma potenzialmente non meno convincenti: vedi l’aroma in apparenza calmante prodotto dalla radici della F. drudeana, probabilmente la ragione per cui numerosi insetti si riuniscono sui suoi rami procedendo di lì a poco ad accoppiarsi, magari offrendo prova delle presunte qualità afrodisiache della pianta.
Il che continua ad essere, ad ogni modo, soltanto una delle possibili specie associate ad eventuali propagazioni sopravvissute del silfio antico-romano. Che altri specialisti hanno provato ad individuare, negli anni, in piante come la Margotia gummifera (alias Thapsia g.) o la Ferula tingitana, entrambe riconducibili all’aspetto pratico dell’effige raffigurata sull’altro lato delle monete di Cirene, nonché l’attuale e largamente trascurato finocchiaccio (F. communis). I cui effetti sul bestiame, in caso di consumo accidentale in quantità eccessiva e quindi tossica, sarebbero anch’essi riconducibili ad alcune osservazioni collaterali in materia di silfio, capace a quanto pare di causare accessi di starnuti nella capra ed improvvisi attacchi di sonno nella pecora. Associazione in qualche modo significativa, quest’ultima, con l’animale utilizzato da tanti come oggetto della conta per riuscire a rilassarsi finalmente tra le braccia di un recalcitrante Morfeo.
Quale che fosse, ad ogni modo, il Nume tutelare di questo particolare tesoro della natura, ci è oggi particolarmente difficile accedere allo stato di grazia necessario per riuscire a venerarlo. Una condizione riconducibile, in base ai dati in nostro possesso, proprio a una condotta impropria nei rapporti continuativi da parte della civilizzazione con la Terra e tutto ciò che questa contiene. Per cui forse l’insegnamento più importante che possiamo trarre dall’intera contingenza resta: “Fare come gli antichi consigliano, piuttosto che quello che commettere i loro stessi errori.” Affinché un domani sia possibile, per quanto ci è dato immaginare, consumare le stesse pietanze che ci rendono felici e soddisfatti al termine di una lunga e faticosa giornata di lavoro odierna. Inclusi finocchione, finocchietto e finocchiaccio.