Ogni guerriero ha il suo implemento da battaglia e nella guerra ininterrotta per riuscire a dare il gusto necessario all’elezione di una splendida pietanza, ogni oggetto è lecito, qualsiasi architettura pratica può dare un senso alla sua funzione. Purché le mani che lo impugnano possiedano un intento puro e ragionato, frutto dell’esplorazione pregressa dell’inesauribile fontana della conoscenza. Così che sono le cose semplici, molto spesso, a custodire i metodi dalla maggiore versatilità procedurale, proprio perché in grado di adattarsi ad ogni circostanza, qualsivoglia tipo di occasione che precorre l’apparecchiatura di una tavola che possa dirsi, sotto ogni punto di vista, perfetta. E non c’è un vero modo, entro i confini del grande paese mesoamericano e fino alle propaggini che in esso confinano con gli Stati Uniti, per poter dire di aver dato soddisfazione a quel bisogno, senza il prodotto fatto con i semi di quel frutto affine alla divinità, il Theobroma cacao che per secoli, millenni, fu considerato un (sacro) gusto acquisito. Prima che l’aggiunta dello zucchero, verso la metà del XIX secolo, potesse renderlo notoriamente irrinunciabile per ogni fascia di popolazione interessata a soddisfare il proprio palato. E quando la sua forma maggiormente apprezzata, come ancora avviene in alcuni stati del Messico, era quella liquida all’interno di appositi contenitori, dove veniva miscelato con il mais e la masa, versione nixtamalizzata (bollita e fatta riposare nell’acqua di calce) di quel cereale. Ma miscelato come, esattamente? È qui che nasce la disquisizione di una fondamentale scelta di campo. Tra quella di chi, come il filologo Esteban Terreros y Pando, afferma che il molinillo (“piccolo mulino”) non venne inventato prima dell’anno 1700, successivamente all’arrivo degli ingegnosi coloni europei, che quindi ne insegnarono l’impiego alle popolazioni indigene della Nuova Spagna. Laddove il missionario cristiano Alonso de Molina, di lì a poco, sarebbe stato pronto a giurare che attrezzi simili fossero stati in possesso già da tempo dei cosiddetti Indios e le altre genti ai confini estremi dei grandi imperi meridionali, ipotesi avvalorata dall’esistenza di almeno due parole utili a indentificarlo nell’antica lingua nahuatl: chicali e aneloloni. Laddove l’ottimale preparazione, con conseguente ottenimento di una schiuma in grado di donare morbidezza e sapore alla miscela, può essere almeno in linea di principio frutto di uno spostamento ritmico e reiterato all’interno di multipli vasi o bicchieri. Ma può essere portato a compimento con efficacia molte volte superiore grazie all’utilizzo di questo buffo arnese. Una mazza, un pomello, una gamba del tavolo, uno strumento musicale. Il cui suono riecheggiante e quello della lingua che sobbalza nello spazio di sua competenza, precorrendo il desiderio di assaggiarne l’insostituibile risultanza…
Nella sua forma basica il molinillo non è dunque altro che un mestolo dalla costruzione finemente elaborata, disponibile in diverse dimensioni sulla base dei tre recipienti utilizzati in Messico per preparare la cioccolata: bicchiere, tazza, pentolone. Costruito in legno sufficientemente rigido come l’ontano o il frassino, esso viene percepito al giorno d’oggi come altamente caratteristico dell’artigianato di regioni come Tabasco, Chiapas ed Oaxaca. Pur trovando un qualche tipo d’utilizzo, almeno in linea di principio, nell’intero territorio messicano, confermando la sua essenziale appartenenza all’identità comune di questo paese. Soprattutto durante le importanti ricorrenze annuali del Dias de Los Muertos (2 novembre) e de Las Posadas (16-24 dicembre) quando i bambini locali vengono incoraggiati a bere direttamente o intingere i propri tamales nella saporita bevanda che prende il nome di champurrado, risultando costituita da tre parti di atole, fluido a base di mais tostato e immerso nell’acqua bollente, ed una dell’originariamente sacra mescitura, un tempo appannaggio della classe dirigente e sacerdotale, che oggi siamo soliti chiamare la cioccolata. Uniti tradizionalmente in un’amalgama, per l’appunto, tramite l’impiego del molinillo, il cui impiego prevede di sostenere il manico tra i palmi delle mani, iniziando a strofinarli in modo tale da imprimergli una rotazione ritmica alternata, la cui cadenza dovrà essere la risultanza di un stato di grazia frutto dell’esperienza. Ed è proprio in quel frangente che la particolare forma dell’utensile, con le sue numerose tacche e gli elementi liberi ad anello, è ritenuto capace di dimostrare a pieno le sue capacità inerenti di ossigenazione e conseguente produzione di bollicine, considerate altamente desiderabili nella presentazione della bevanda. Il che ha fatto negli anni del molinillo un’oggetto, se non proprio irrinunciabile, comunque funzionale a un certo tipo di vita familiare, e proprio per questo mantenuto in alta considerazione come punto di evidente orgoglio. Da qui l’origine dei suoi motivi decorativi altamente riconoscibili, e per certi versi codificati, di linee, tratti e figure geometriche, capaci di valorizzare al massimo le qualità geometriche dell’oggetto, ornamento decorativo all’interno di qualsiasi dimora. E proprio per questo acquistato spesso, notoriamente, da turisti in visita che non conoscono né sono in grado di comprenderne l’effettiva modalità d’impiego. Ma anche ciò caratterizza, in un certo senso, l’essenziale funzionamento della cultura post-moderna…
Come un arco di collegamento tra l’antico e il moderno, ma anche l’universo stereotipicamente femminile della cucina a quello contrapposto dell’intaglio, il molinillo ha saputo costituire attraverso gli ultimi tre secoli un importante filo conduttore dell’intera cucina messicana. Inserita a partire dal 2010 nell’elenco dei patrimoni immateriali dell’UNESCO, una qualifica certamente degna di nota nella sua unicità, visto come gli unici altri piatti riconosciuti degni di tutela da parte del prestigioso ente internazionale siano corrispondenti alla zuppa joumou dell’isola di Haiti ed il pane armeno lavash. Entrambi meno noti all’estero, senza ombra di dubbio, della pura e semplice cioccolata calda, che potremmo almeno in linea di principio preparare ancora oggi tramite l’impiego dell’ancestrale, decorato implemento. Se soltanto nei negozi di souvenir qualcuno, o un apposito cartello, svolgessero l’essenziale mansione di spiegarci a che cosa diavolo serve…