In base ai miti ancestrali dei Masyarakat Arfak, il gruppo di tribù che vivono sulle omonime montagne dell’entroterra papuano, i loro antenati scesero un giorno in guerra per il controllo di un prezioso albero di guava. E fu così che dopo un periodo di aspre battaglie, anche i bambini scesero in campo per i rispettivi schieramenti, armandosi principalmente di arco e frecce in base alle usanze primitive. Ma uno di loro, scoccando all’indirizzo del nemico, sbagliò mira e colpì accidentalmente un sacro uccello del paradiso. Colpiti dal nefasto presagio, i capi delle due famiglie scelsero di fare un giuramento: essi non avrebbero più intrattenuto alcun tipo di comunicazione. Né sarebbero vissuti ancora sotto lo stesso tetto. Molti anni dopo, i discendenti dei gruppi linguisticamente eterogenei delle tribù di Sough, Hattam ed Arfak decisero di tentare una tardiva riappacificazione. Radunandosi in un luogo neutrale, dove si scambiarono il cibo frutto dei propri raccolti e danzarono assieme alla ricerca di un accordo comune. Le loro storie, che scoprirono essere simili, non sembravano tuttavia avere mai fine. E da ciò nacque il complesso sistema di movimenti e canzoni, suddiviso in Tumbu Tanah da praticare all’esterno e quello utilizzato in privato, tra le mura domestiche della propria abitazione che prende il nome di Tambuk Ruma. Ed è anche per questo che le dimore costruite dai Masyarakat Arfak assumono proporzioni notevolmente superiori a quelle di una comune capanna degli indigeni, risultando dotate di un ampio spazio centrale e camere separate per una o più famiglie, anche superiori numericamente al nucleo minimo di genitori e i loro giovani figli. Finendo in questo modo per richiedere, al momento della loro costruzione, il coinvolgimento di una significativa percentuale degli uomini del villaggio, per un periodo pari anche a diverse settimane di lavoro. Ma il risultato… Merita davvero il nome di rumah kaki seribu, ovvero letteralmente: casa tradizionale del millepiedi. Una metafora senz’altro desumibile, nella sua origine, mediante mera osservazione dell’aspetto, caratterizzato dalla più fitta base immaginabile di una serie di sottili palafitte. Fatta continuare, dal punto di vista strutturale, nell’incrocio dei numerosi pali verticali ed orizzontali utilizzati come base delle sovrastanti pareti, legati assieme tramite quello che potrebbe avvicinarsi ad un migliaio di nodi. Questo per una significativa pluralità di ragioni: difendersi per quanto possibile dall’ingresso accidentale di animali selvatici, come serpenti o tarantole, e mantenere i membri più deboli della tribù lontano dagli occasionali conflitti armati condotti innanzi all’uscio della casa. E proteggerli allo stesso tempo, assieme ai loro parenti armati, da un tipo di attacco ben più subdolo e pericoloso nella sua frequenza: quello del suwanggi, lo stregone possessore delle temibili arti della magia nera.
Costruita con tecniche affinate in un periodo di secoli, grazie alle usanze frutto della tradizione orale di questa gente, la costruzione della rumah kaki seribu costituisce un notevole esempio dell’ingegno affinato dalla necessità, assieme alla capacità di adattamento delle metodologie popolari di fronte alle specifiche caratteristiche di un determinato ambiente. Così impiegando piccoli tronchi di giovani alberi, piuttosto che quelli dal diametro più significativo di esemplari adulti, i costruttori possono acquisirli ancora oggi anche senza ricorrere ad attrezzi di concezione moderna, facilitando inoltre le operazioni di trasporto. Il preciso reticolo dei nodi realizzati con le corde anch’esse vegetali, impiegato a questo punto per tenere l’insieme dei risultanti materiali, viene organizzato in base a una geometria che vede la coesistenza dei due tipi principali, per unire tra loro le diverse parti del pavimento e delle pareti. Frutto di un calcolo istintivamente matematico, tanto complesso da aver costituito oggetto di studi scientifici da parte delle università d’Oceania, tale approccio garantisce una solidità eccellente. Di assoluto rilievo, a tal proposito, la prova condotta nel 2017 da Juwita, Kalsum et al, consistente nella sollecitazione traslazionale di una casa millepiedi modello, mediante un traino collegato ad un veicolo a quattro ruote motrici. Così da dimostrare l’eccelsa resistenza sismica di simili strutture, per molti versi superiore a quella delle alternative moderne di cui possono oggi disporre i loro ancestrali abitanti, vantaggio dal valore non trascurabile in un territorio sottoposto a frequenti scosse come l’intera isola della Papua Nuova Guinea. Importante anche l’adattabilità delle fondamenta basate sui plurimi pali piantati nel terreno, capace di conformarsi a qualsiasi inclinazione del terreno, tipicamente discontinuo in questa zona montana. Mediante pareti ricoperte di corteccia e un tetto fatto di grandi foglie di palma e fili intrecciati di alang-alang (l’erba Imperata cylindrica) vengono quindi garantite ottime capacità d’isolamento termico, sia nei mesi estivi che in quelli invernali, dove il clima sorprendentemente rigido dei rilievi dell’entroterra papuano viene contrastato trascorrendo più tempo nella sala comune (tiepou). Laddove le notti, normalmente, vengono trascorse nelle due stanze dello ngimdi e ngimsi, riservate rispettivamente agli uomini e le donne. Un altro luogo importante è il run ti o deposito degli oggetti importanti, posto in un’area sopraelevata della zona comune. Il cibo e le scorte di maggior ingombro, invece, sono custodite in piccoli edifici di appoggio edificati nel cortile antistante. Essendo totalmente prive di aperture tranne che per la presenza di tre porte, una di fronte e le altre due sul retro, queste case vengono ventilate in modo naturale col passaggio del vento, mentre la luce filtra in genere attraverso le inevitabili intercapedini tra i tronchi delle pareti e del tetto. Interessante prassi finalizzata alla conservazione del territorio costituisce per questi ultimi una raccolta organizzata nel tempo, preparata a partire dal taglio delle fronde più alte degli alberi selezionati, così da causarne una morte lenta e conseguente avvizzimento delle radici, in modo da salvaguardare l’integrità del sostrato di terra. Un’ulteriore prova, se mai fosse necessaria, della visione a lungo termine posseduta dalle genti che vivono a stretto contatto con la natura.
Una volta ultimato il progetto di una nuova casa millepiedi, eventualità sempre più rara vista la comparativa semplicità di acquistare un capanno prefabbricato, i membri del popolo Arfak provvedono quindi a chiamare sul posto uno sciamano. Che dopo un piccolo sacrificio, in genere di un pollo, effettuerà i dovuti scongiuri e benedizioni al fine di santificare il legno utilizzato per la dimora, così da renderlo del tutto impervio alle maledizioni di un eventuale suwanggi ostile. Forse la ragione principale per cui le prime missioni di matrice cristiana, giunte in questa terra dalla distante Germania attorno al 1855, si preoccuparono di fornire ai nativi uno stile di vita che potesse sorpassare la costruzione sistematica di case millepiedi, oggi progressivamente sempre più rare.
Fatta salva la più recente intenzione del governo papuano contemporaneo di preservare, per quanto possibile e mediante un programma di incentivi a più livelli della popolazione, l’occasionale messa in pratica di questa antica arte. Un approccio pregevole e distintivo al problema che accomuna ogni appartenente al vasto consorzio umano: la sicurezza e confort della propria vita su questa Terra. Costi quel che costi, e non importa quante corde debbano essere annodate per riuscire a garantire l’ottima riuscita di questa impresa.