Profili delle case multiple adagiate l’una all’altra, con candidi merletti posti ad identificare i perimetri portati ad intersecarsi. Finestre o feritoie di ogni forma immaginabile, rettangolari, sovrastate da archi, contrafforti onirici a stretto contatto con le nubi. E in cima un’alta balconata da cui dominare l’intero territorio, aspettando la venuta di un’ispirazione proveniente dai flussi inalterati della sapienza.
Luoghi magnifici da epoche distanti, in circostanze inaccessibili di paesi politicamente complessi. Eppure nella mente delle persone, il loro atteggiamento, l’apertura nei confronti della modernizzazione necessaria per poter creare un polo d’attrazione turistica fuori dai confini, può sussistere un latente potenziale degno di essere esplorato, nell’attesa di un mondo maggiormente aperto alle possibilità future. In Yemen, nella verdeggiante valle (wahdi) di Dhahr situata a soli 15 Km dalla capitale di Sana’a, una figura dalla veste variopinta si staglia contro uno degli edifici più caratteristici di questo paese. Lei è Somaya Gamal, giovane viaggiatrice reclutata in questo caso dall’UNESCO, al fine di mostrarci la svettante meraviglia architettonica di questo luogo letteralmente sconosciuto all’Occidente, per i molti complicati risvolti burrascosi e conflitti regionali intercorsi al volgere delle trascorse Ere. Eppure stranamente familiare al senso comune dei cinefili italiani, per la sua comparsa in qualità di residenza della principessa Dunya nel film del 1947 di Pier Paolo Pasolini, Il fiore delle Mille e una notte. Struttura degnamente iconica, assolutamente imperitura in potenza, così come compare con l’appellativo odierno di Dar al-Hajar: il “Palazzo sulla roccia”. Nomen, omen, verità evidente. Tangibile, pesante, con le fondamenta inesplicabilmente incapsulate in un enorme macigno d’arenaria costruito presso il sito di un’ancestrale fortezza dei Sabei. In multiple contingenze e con tutte le caratteristiche di un’imprendibile palazzo, così come voluto dal suo principale committente agli albori dell’epoca moderna, l’Imam di tutto lo Yemen al-Mansur Ali ibn al-Abbas che regnò come dinasta dei Qasimidi tra il 1755 e il 1809, in un paese libero dal dominio degli Ottomani da ormai più di due secoli, ma ancora disunito dai conflitti e dalle guerre tribali purtroppo implicite nella sua eredità storica e culturale. Tuttavia sufficientemente stabile, e prosperoso, da permettere la costituzione di un polo delle arti e della cultura alla corte del suo più influente sovrano, con figure di elevato calibro in tal senso ma forse nessuna all’altezza dell’astronomo, ingegnere e costruttore di castelli Ali ibn Salih al-Ammari (1736-1798) che qui pensò quello destinato a rimanere negli annali come uno dei suoi capolavori. Una residenza estiva quale mai nessuno, prima di quel momento, avrebbe mai potuto tentare d’immaginare…
La natura stratificata del Dar al-Hajar è una caratteristica facilmente individuabile già dalla distanza, utile a testimoniarne il perfezionamento ultimato attraverso il trascorrere delle plurime generazioni dei suoi fruitori. A partire dalle genti himyarite dell’epoca sabea, che attorno al 3.000 a.C. già abitavano la fertile valle di Dhahr, sentendo un giorno l’evidente necessità di fortificarne l’insediamento centrale. Con un forte ereditato dagli islamici e passato alla storia come Sidan sopravvissuto in varie forme fino all’epoca medievale, per essere infine distrutto durante la guerra turco-mamelucca del 1516-17. Fino alla ribellione del XVII secolo di al-Mansur al-Qasim dei Qasimidi, l’imam che avrebbe liberato il suo paese dalla lunga influenza straniera, riportandolo a uno stato primordiale di piccole comunità eternamente divise. Ma su cui qualcosa poteva essere costruito ed in effetti così avvenne, permettendo la creazione di un sistema ereditario del potere nominalmente centrale, destinato a rafforzarsi col passare delle generazioni. Sotto il controllo di una classe dirigente che imprescindibilmente avrebbe richiesto, come in ogni altro luogo, una manifestazione tangibile del suo prestigio. Da qui probabilmente l’idea di costruire una nuova rocca in corrispondenza della Sidan, che fosse al tempo stesso strategica ed affascinante, degna di ospitare il supremo comandante dei fedeli tra le terre comparativamente aride del territorio yemenita. Molti degli aspetti fondamentali del palazzo sulla pietra risultano in effetti unici, nel panorama già eclettico ed imprevedibile dell’architettura locale, spesso capace d’integrare elementi del paesaggio e farne una parte imprescindibile dei suoi più svettanti edifici. Così come avviene in questa versione particolarmente imponente di quella che potremmo qualificare come tipica casa a torre delle città vernacolari, ma costruita con solida pietra dell’Abissinia (habash) in aggiunta ai prototipici elementi fatti con terra pressata inerentemente vulnerabile alla limitata pioggia di questo ambiente. Benché periodi particolarmente problematici possano pur sempre presentarsi, nella maniera riportata come concorrete alle reiterate distruzioni delle pregresse versioni dell’edificio. Che sarebbe progressivamente cresciuto durante il dominio dell’imam al-Mansur Ali e dei suoi figli, fino a raggiungimento della sua attuale altezza di sette piani all’epoca del successivo governante Yahya Muhammad Hamid ed-Din (regno: 1918-1948) il quale aggiunse la sovrastruttura corrente completa di grande sala per gli ospiti ed area per l’invio e ricezione di piccioni viaggiatori, una forma di corrispondenza impiegata ancora nel periodo tra le due guerre. Nella zona raggiungibile attraverso un dedalo di scale e di stanze, rigorosamente separati tra ambienti maschili e femminili, dotate di un sofisticato sistema di approvvigionamento dell’acqua mediante un pozzo centrale scavato attraverso una dura roccia del pilastro sottostante. Elemento chiaramente utile durante un eventuale assedio, così come i numerosi punti di appostamento per i cecchini e le torri di guardia visibili verso le pareti digradanti della valle, impiegate al fine di avvisare in anticipo gli occupanti del palazzo in caso di eventuali attacchi nemici. Così come spiegato dall’ironica protagonista del videoracconto Somaya Gamal, mentre scherzosamente “prende la mira” con una delle chiavi della porta d’ingresso più grandi che abbiate mai visto.
E d’altra parte c’è un potente legame tra questa reggia opulenta e la cultura folkloristica che la circonda, così come spiegato dalla reiterata presenza in ogni fine settimana di giovani coppie recentemente unite in matrimonio, per scattare foto sullo sfondo di questo sito unico al mondo, o le riunioni degli abitanti del posto nella piazza pavimentata sottostante, per le danzanti ricorrenze delle feste appartenenti alla tradizione. Per non parlare dell’albero entusiasticamente inquadrato dalla nostra guida situato a fianco dell’ingresso del palazzo, un taluqa o albero del tè (Melaleuca alternifolia) che si dice risalire ad almeno 7 secoli a questa parte. E che potrebbe anche essere stato alimentato, ipotizza Somaya, dall’acqua gettata dalle alte mura durante il risciacquo del lavaggio delle vesti nell’apposito locale soprastante. Dopo tutto, cose più impreviste sono occorse nei trascorsi della storia umana e della natura. Così come congiunte alla maniera tanto efficacemente esemplificata, da un palazzo che è al tempo stesso opera indipendente dell’uomo ed una rete di passaggi ricavati nella roccia viva. Destinato a rimanere ingiustamente inesplorato dalle moltitudini, finché l’unione tra i popoli e le contrapposte culture non diventerà, finalmente, molto più che un mero ideale.