Le città degli Emirati Arabi, particolarmente quelle più grandi, possiedono un “carattere” che le pone fuori dal novero dei centri urbani creati in base ad un’evoluzione logica, sconfinando in modo progressivo nel surrealismo. Ampi viali privi di elementi, che procedono fin quasi all’orizzonte in mezzo ad edifici non diversi da una qualsivoglia periferia del Sud del Mondo. E in lontananza poste a sovrapporsi innanzi a un vasto cielo limpido, torri sfolgoranti ed isolate, ciascuna delle quali costruita in base a un canone esteriore dirompente, in qualche modo priva di caratteristiche effettivamente utili a contestualizzarla. Ed è ciò uno spunto d’analisi che di certo non è privo di collocazione, in uno studio veramente approfondito di Manama, principale città e centro amministrativo della piccola nazione isolana del Bahrein, fondata nel diciottesimo secolo in corrispondenza di un centro di scambio degli antichi imperi persiani, ma realmente trasformata soltanto nelle decadi a seguire, in forza del cupo fluido che alimenta la spinta energetica dell’attuale società industrializzata. Così c’è una sorta di metafora, non propriamente subdola o sottile, nella forma a tortiglione della semi-recente United Tower, completata nel 2016 assieme ad una delle isole artificiali quadrangolari del quartiere degli affari che si affaccia sul golfo dell’Oman. “Ne modo in cui le potenti trivelle perforano la terra appartenuta ai nostri antenati, in cerca di tali e tante ricchezze, così l’eccezionale edificio ne trasferisce la riconoscibile forma nella skyline cittadina, polarizzando gli sguardi di chi riesce a percepirne l’iconico significato finale.” E può sembrare certamente strano interpretare un luogo come questo, antico di almeno un paio di millenni, nella qualità di un qualche cosa d’incompleto, proprio perché situato presso la stazione intermedia di un processo trasformativo nella ridefinizione degli spazi eminenti. Eppure spendere 2,5 miliardi di dollari per sostituire il mare con 290.000 metri quadri di terra abitabile e poi costruirvi sopra qualcosa di simile alla United Tower, fa pensare a una visione a lungo termine per il tragitto futuro della società civile, e tutto ciò che questi comporta per un paese di non così facile interpretazione. Polo turistico, luogo di riferimento, faro sporgente nel sabbioso oceano di quei luoghi? Dove il prestigio si misura in migliaia di metri quadri… E la quantità di marmo utilizzata per riuscire a rivestire il cavernoso foyer. C’è d’altra parte molto di pratico, nella scelta costruttiva di approntare una torre in questa particolare forma, che potrà non essere la più alta della zona visti i suoi “appena” 187 metri d’altezza. Ma potrebbe costituire quella in grado di durare più a lungo, senza significativi interventi di restauro o manutenzione…
Un’analisi della portata a noi accessibile di questo distintivo grattacielo può del resto assumere l’aspetto di una disamina di quali e quanti modi esso dimostri metodologie utili a massimizzare il vantaggio geometrico per la costruzione di un vasto edificio. Con la capacità fornita dalla sua facciata cilindrica, che si avvolge attorno ad un’armatura centrale, di deviare il vento e dissipare l’energia superflua, scaricando nel contempo l’immanente pesantezza degli elementi strutturali, dislocati in modo tale da permettere una dislocazione il più possibile efficiente degli spazi interni. L’edificio con l’impostazione esteriore di una punta di trapano, inoltre, distribuisce con significativa efficienza l’illuminazione dei piani sovrapposti, offrendo da ciascuno di essi una vista egualmente attraente del paesaggio urbano e le acque calme fatte penetrare dallo stretto di Ormuz. In un panorama dove gli enormi edifici ad utilizzo misto ricorrono e si guardano l’un l’altro, subordinando essenzialmente la loro effettiva necessità d’esistere al bisogno di proiettare un’immagine d’imprescindibile opulenza generazionale. Laddove la torre United, così chiamata proprio in funzione della sua costruzione ad opera dello stesso gruppo d’investimento (il cui sito ufficiale e brochure collegano esplicitamente alla figura del magnate Ahmed Al Qaed) svolge quanto meno la funzione ragionevolmente utile di albergo di lusso della catena Wyndham per i suoi primi 14 piani, a partire dal plinto a parallelepipedo con negozi e parcheggi e fino a metà altezza. Dove l’insolito grattacielo inizia ad ospitare, di contro, uffici disponibili a noleggio, tramite il marchio internazionale Regus che li suddivide in tre diversi “tier”: spazi privati, singole stanze ed open space. Ma è al di sopra di tale contesto, che prosegue fino al quarto quinto del palazzo, che le cose iniziano a farsi davvero stravaganti, con l’imprescindibile spazio panoramico, club del fitness, piscine, zona giochi per bambini e una “sala da ballo” situata in corrispondenza del quarantacinquesimo piano dell’edificio, località attraente per feste o ricevimenti della letterale punta di diamante della società Manamense. Potenziando ancor di più la preponderante associazione concettuale di quanto fin qui descritto, come intromissione in un reticolo di cristalli mineralizzati costruito dall’immaginazione di coloro che osservano dalle cupe ombre del livello stradale. Dove sopra e sotto appaiono invertite, grazie alla creazione architettonica priva di una firma pubblicata nei materiali di marketing, proprio perché appartenente alla visione araba e per questo innegabilmente affine ai gusti dei suoi committenti, senza sconfinare nell’avveniristico ambientalismo del vicino e più famoso World Trade Center Bahrein, l’aerodinamica coppia di grattacieli con tre pale eoliche al centro. O l’altra grande opera finanziata in tempi recenti da Ahmed Al Qaed, il prestigioso hotel dei Giardini Pensili di Dilmunia, un “grattacielo orizzontale” frutto dello studio inglese WKK, già autore dell’iconica vela della vicina Dubai.
Qui una forma degna di essere inserita nelle antologie dell’architettura contemporanea, là qualcosa di difficile comprensione all’interno del suo specifico luogo di collocazione. Manama, come tante altre capitali del mondo arabo, costituisce un polo significativo dell’urbanistica post-modernista, dove ogni canone decade a vantaggio dell’espressione personale del committente. Il che tende a offrire una composizione apparentemente disgiunta o discontinua, con un susseguirsi di torri che parrebbero fare a gara per distinguersi da una presunta convenzione che a tutti gli effetti non è mai realmente esistita. Ma forse saremmo proprio noi del “prestigioso” Occidente, di contro, a dover considerare le implicazioni di un mondo che cambia. E muterà imprescindibilmente ancora, quando i carburanti fossili saranno ormai prossimi all’esaurimento. Ma le grandi punte di trapano continueranno, dietro i nostri occhi, a girare. Laboriose manifestazioni dell’intento di creare un qualche cosa di durevole. Il cui successo può essere soltanto misurato, senza alcun dubbio residuo, al volgere delle generazioni ulteriori.