La più tenue e labile speranza, l’unico strumento utile per ritrovare infine la via di casa: il filo d’Arianna, mitologico implemento utile alla navigazione dell’insidioso Labirinto cretese. Ed è questa la funzione, fondamentalmente, di un moderno cavo di recupero, saldamente assicurato ad una parte solida della struttura sopra cui ci troviamo. Ovvero il grattacielo sdraiato, l’orizzontale resort semovente d’una ponderosa nave da crociera dei nostri giorni. Luogo di lavoro e al tempo stesso funzionale prigione dorata, per persone come Odysseas Froilan, il tecnico marittimo impiegato da diverse compagnie greche tra cui la Celebrity Cruises, Inc. a partire dall’anno 2019. Esperienza durante la quale, in un frangente destinato a diventare celebre, decise l’anno scorso di procedere così: gettando la sua ottima e preziosa telecamera digitale subacquea oltre il parapetto della nave. Ma non prima di aver disposto il necessario per poterla riportare a bordo… Due volte. Una di giorno e l’altra successivamente al sopraggiungere dell’oscurità serale, per meglio ottenere l’effettivo trasferimento al contesto attuale del suo storico passatempo. Sto parlando come desumibile da un rapida ricerca del suo nome online, di riprendere il mondo naturale del suo splendido paese e non solo. Riuscendo a trarne materiale dai palesi meriti professionali e qualche volta, addirittura, totalmente unico nel suo genere di rappresentanza. Osservate dunque, assieme a lui, l’obiettivo che scavalca la murata e scende giù costeggiando lo scafo, fin oltre la linea di galleggiamento. Per poi giungere a inquadrare brevemente il bulbo di prua, soltanto pochi attimi prima che si verifichi l’inevitabile evento. Ecco palesarsi, dunque, la scattante forma oblunga di un crudele barracuda o luccio del Mediterraneo, probabilmente appartenente alla specie Sphyraena viridensis (non che l’unica possibile alternativa, lo S. Sphyraena, possa risultare facile da distinguere in queste particolari circostanze) prevedibilmente ed immediatamente attratto dalla scintillante forma penetrata ai margini del suo campo visivo. L’occhio attento scrutatore e quella bocca semi-aperta ingombra di zanne aguzze, di concerto, utili a comunicare ciò che fondamentalmente avremmo già potuto immaginare in autonomia: “Vieni qui di persona la prossima volta, umano. E ti farò conoscere il destino di chiunque intenda sfidare le regole non scritte degli abissi”. Ma è null’altro che un fugace momento, quello caratterizzato da una simile impressione, mentre il punto di vista continua la sua inarrestabile discesa finché non si trova a pochi metri dal fondale. Per trovarsi ad inquadrare, sorprendentemente, la catena di metallo dell’imponente ancora del vascello, così pesantemente dislocata tra la sabbia di un fondale dolorosamente ed irrimediabilmente cambiato. Lunghi solchi che dovrebbero idealmente sanguinare, se l’antica metafora della Terra “vivente” potesse esprimersi attraverso dei fattori esteriori. Benché la vita, con il consueto e pratico senso d’adattamento, continui nondimeno a prosperare, persino adesso, persino in mezzo ad una simile preponderante devastazione…
Ecco dunque palesarsi, innanzi ad un punto di vista alquanto stabile indipendentemente dalle ragionevoli premesse situazionali, dozzine o addirittura centinaia di quelli che parrebbero essere dei pesci grugnitori del Mediterraneo (fam. Hemulidae) probabilmente del genere Plectorhinchus o Pomadasys. Forme piatte e oblunghe dal dorso bulboso, la coda biforcuta dietro un corpo ricoperto di scaglie argentate, del tutto indifferenti la pericolo dei predatori in caccia nella parte superiore della colonna marina. Forse perché forti dell’anonimato del branco? Oppure perché troppo grandi per finire facilmente tra le strette e oblunghe fauci di un famelico barracuda? Ciononostante la natura a sua volta carnivora di simili creature, normalmente inclini a nutrirsi di larve o piccoli invertebrati, solleva un tipo d’interrogativo alquanto sgradevole per l’immaginazione. Poiché sarebbe ingenuo non pensare che l’aggregazione sotto l’ombra delle nave di una simile quantità d’esemplari, tra l’altro marginalmente rilevanti nel contesto della pesca a scopo gastronomico, possa essere motivata da un problematico apprezzamento delle scorie rilasciate dall’imponente oggetto alieno come fonte di cibo e conseguente sostentamento. Materiale non soltanto contaminato da sostanze chimiche probabilmente nocive, ma anche una quantità non trascurabile di probabili deiezioni ed escrementi di provenienza umana, preventivamente “trattati” dalle strutture tecnologiche a bordo della nave. Non proprio un’implicazione particolarmente gradevole, per il contenuto delle reti da pesca, del cosiddetto cerchio della vita. Benché, vada pur detto, tutt’altro che rara! Il contenuto dell’osservazione si arricchisce quindi nella progressione dei suoi 7 notevoli minuti col passaggio di alcune lecce o ricciole stella (Trachinotus ovatus) degli altri pesci piatti in senso longitudinale, ben riconoscibili per la forma longitudinale idonea alla ricerca delle loro prede elettive come totani, calamari ed altri molluschi marini. Ma è nella scena successiva, ambientata dopo il tramonto dell’astro solare, che la sequenza pare assumere le tinte di un vero e proprio film dell’orrore. Quando dopo il passaggio reiterato dell’ennesimo barracuda (non si dorme mai da queste parti) compare tra le ombre l’inconfondibile sagoma di uno squalo dalle dimensioni medio-piccole, probabilmente un giovane esemplare di squalo limone (Negaprion brevirostris) o toro (Carcharias taurus) altrettanto incline a studiare da vicino quella che potrebbe configurarsi come una vera e propria esca inusitata delle digitali quanto insolite circostanze. Alla ricerca di un’interazione chiaramente impossibile, ma che cionondimeno serve allo scopo d’indurre un brivido profondo nello sguardo degli spettatori umani e mantenerli a rispettosa e ragionevole distanza da questo ambiente. Se soltanto la stessa cosa potesse verificarsi per quanto concerne, ahimé, lo spettro ponderoso ed ingombrante delle loro grandissime navi…
Temporaneamente accantonate durante gli anni del Covid, le imponenti navi da crociera sono dunque ritornate negli ultimi tempi a popolare la maggior parte dei mari di questo Pianeta. Con conseguenze difficilmente misurabili dal punto di vista dell’impatto ambientale, benché stimate come significativi e irreversibili, proprio in forza della loro stessa natura. Sia per problemi come quello del tipo di carburante utilizzato il più delle volte, l’inquinante bunker fuel semi-solida e visivamente simile al catrame, che per la maniera in cui tendono a lascare dei profondi solchi ogni qualvolta si decida di fermarle in punti definiti e fuori dallo spazio già devastato di un punto d’approdo acclarato. Immaginate, ad esempio, l’effetto di un’àncora come questa (e soprattutto la relativa catena) all’interno di un bioma sempre più raro e prezioso quale l’insostituibile barriera corallina.
Potrete allora comprendere le implicazioni molto problematiche dell’entusiastico banchetto dei pesci mangiatori di una spazzatura che neppure dovrebbe esistere, concettualmente non dissimile per loro dall’ultima cena. E dunque a seguire, l’importanza di effettive documentazioni dello stato in essere, come quella prodotta da Odysseas. Una funzionale finestra equidistante tra il nostro presente e l’incombente futuro. Senza pesci, senza porti e ormai del tutto privo di navi. Quando non ci sarà più alcuna valida ragione per andare a visitare il mare. E storie videografiche simili a questa sembreranno, agli archeologi del mondo, non dissimili da una tavoletta d’argilla sumera.