In un possibile universo alternativo, pseudo-archeologi di provenienza asiatica ed americana guardano con vago senso di stupore alle grandi creazioni architettoniche dell’antico mondo europeo. E partecipando a programmi televisivi facendo abbondanti riferimenti a civiltà perdute e possibili visite extraterrestri, di fronte all’impossibile accuratezza mostrata nella costruzione originale di Notre Dame o dell’Alhambra, del Partenone in Grecia, del Colosseo di Roma e d’infinite altre strutture costruite attraverso i secoli pregressi di storia. “Edifici che sarebbero difficili da erigere persino oggi, con la tecnologia moderna!” Come se la disponibilità di paranchi, frullini elettrici, martelli pneumatici o apparati di misurazione laser potesse effettivamente sostituire l’infinita varietà dei traguardi accessibili mediante applicazione dell’ingegno umano. Una visione, dal punto di vista pratico, che si riflette a pieno titolo nelle diverse trattazioni d’infiniti siti archeologici al di fuori del “Vecchio” continente, benché la logica pregressa dovrebbe consentirci di presumere una serie di doti equivalenti per le popolazioni dei diversi recessi da un lato all’altro degli oceani terrestri. Invece di mantenere fermamente radicata, a più livelli del senso comune, l’idea che determinati popoli o gruppi sociali debbano in qualche maniera essere inferiori nella loro capacita d’istituire un lascito a vantaggio o beneficio della posterità futura.
Uno di questi luoghi resta senz’altro il complesso di rovine di Pumapunku (letteralmente: la Porta del Puma) nella zona un tempo abitata dalla cultura di Tiwanaku, nei vasti altopiani ad ovest della Bolivia, poco distante dalla vasta pozza riflettente del lago Titicaca. Un luogo che si erge sopra la pianura ininterrotta grazie all’utilizzo di una piattaforma vagamente trapezoidale, costruita artificialmente mediante l’utilizzo di strati sovrapposti di terra e pietra, sopra cui si ergono alcune strutture monolitiche dalla natura particolarmente difficile da contestualizzare. Il che permette di comprendere, pressoché immediatamente, di trovarsi di fronte ad uno di quei luoghi relativamente ben conservati, la cui funzione presunta o effettiva tipologia d’impiego continua ad eludere l’elaborazione di teorie che possano definirsi non soltanto inconfutabili, ma anche vagamente iscrivibili all’albo delle probabilità intercorse. Il che non ha impedito nel corso degli anni, a numerose figure di specialisti dal curriculum diversamente pertinente, l’elaborazione di vertiginose e contrastanti teorie. A partire dal più famoso e frequentemente citato studioso dell’argomento, l’imprenditore, esploratore ed occasionale archeologo dilettante Arthur Posnansky, che venendo dall’Austria nella prima metà del Novecento produsse una serie di studi sulle rovine dei Tiwanaku finalizzate all’elaborazione di un possibile Mondo Perduto, nell’accezione maggiormente immaginifica ed iconica di questa espressione. Un contesto all’interno del quale, in altri termini, piattaforme simili a quella di Pumapunku si ergevano sopra un vasto lago oggi scomparso risalente ad oltre 15.000 anni a questa parte, costituendo i siti di riferimento culturali e religiosi di un vetusto ed inimmaginabile modo di vedere il mondo. Permettendo, al tempo stesso, di localizzare gli astri celesti da cui potevano esser giunti, alternativamente, alterni gruppi di visitatori dalla pelle verde o d’altri sorprendenti colori…
Il problema essenziale di Pumapunku, analogo a quello di altre località simili in Sudamerica ed altrove, è la capacità di esistere in un vuoto privo di riferimenti storiografici o strutture nozionistiche di supporto. Il che avrebbe permesso, a personaggi con le finalità più varie, di proporre al mondo la propria specifica interpretazione degli eventi. A partire dalla datazione stessa di Posnansky, ottenuta e riconfermata soltanto mediante la branca spesso discutibile dell’archeoastronomia, per un’allineamento degli astri fatto risalire in modo matematico a quindici/diciassette millenni a questa parte. E che se pure fosse stato necessario, difficilmente avrebbe esitato a collocarlo ancor più addietro nella sua ipotetica cronologia di riferimento. Laddove poco importa, dal punto di vista dei teorici del complotto e fautori di diverse ipotesi aliene, il fatto che la scienza moderna sia successivamente intervenuta negli anni ’70 dello scorso secolo, in modo particolare nella persona di Carlos Ponce Sanginés e il suo studio di datazione al Carbonio-14, effettuato su campioni prelevati dallo strato inferiore del terrapieno di sostegno. Utile a ricollocare, nella discontinua cronologia dell’uomo, l’inizio della costruzione del sito attorno all’anno 1580 a.C. Una base di partenza progressivamente avvicinata tramite il susseguirsi di ulteriori opinioni, fino a quella maggiormente accreditata che vorrebbe collocarlo cronologicamente al quarto/quinto secolo d.C. Una versione oggettivamente più probabile, di fronte al tipo di tecnologie impiegate. Resterebbe d’altra parte assai difficile, trascurare l’evidente perizia dimostrata dagli antichi architetti di quanto è ancora possibile osservare contestualmente nel presente luogo. Un contesto inclusivo della sopracitata serie di pietre monolitiche, le più pesanti delle quali con un peso stimato di 131 tonnellate. Per lo più composte, nella maniera comprovata dalle approfondite analisi degli scorsi decenni, di pietra d’arenaria o la particolare roccia ignea effusiva che prende il nome di andesite, presumibilmente provenienti da una cava situata in prossimità delle sponde del lago Titicaca. Successivamente tagliate e/o scolpite, mediante un tipo di strumenti che non sono mai stati trovati, in forme straordinariamente precise paragonabili a quelle della successiva architettura degli Inca, capaci d’incastrarsi tra di loro senza nessun tipo d’intercapedine residua. Sia mediante tecniche d’incastro che elementi di blocco in metallo a forma di doppia T, fusi in una strana lega di rame, arsenico, nichel e bronzo. Così come osservabile dalla pluralità dei singoli elementi disseminati presso il sito, alcuni dei quali dotati di forme stranamente riconoscibili, come la serie di possibili “portali” che ricordano delle lettere H maiuscole, o le steli con croci, asterischi e persino un simbolo accidentalmente simile a quello della porta Ethernet di un moderno PC. Elementi potenzialmente riconducibili, nell’opinione di molti studiosi, a quello che avrebbe potuto essere all’epoca il progetto di un unico edificio o complesso, con probabile finalità rituale dove le genti di Tiwanaku si sarebbero riunite per pregare o propiziare gli Dei. Di notevole interesse, a tal proposito, lo studio del 2018 di Alexei Vranich, pubblicato sulla rivista Heritage Science, in cui l’autore si è applicato nella stampa 3D di ciascun blocco presente a Pumapunku, per poi tentare di combinarli nel suo laboratorio, fino all’ottenimento di una possibile struttura simile ad un vasto tempio, dove i visitatori sarebbero stati chiamati a raffrontarsi con la maestosa ed incombente presenza di entità superiori. Intelligenze imperscrutabili come quella dell’immortale Viracocha, il supremo Creatore venerato ancora al tempo dei belligeranti Inca e che secondo teorie largamente accreditate, poteva già esser venerato all’epoca della cultura prevalentemente agricola di Tiwanaku.
Ma la chiarezza ed il catalogo delle nozioni di cui oggi possiamo disporre, alquanto prevedibilmente, non sembrerebbe aver convinto i soliti fautori della pseudoscienza, in questo caso coadiuvati dalla percepita Assenza di Spiegazioni Logiche per un sito come quello di Pumapunku, ridotto in disordinate rovine dai saccheggi perpetrati già a partire dal decimo secolo e per di più largamente sconosciuto al di fuori del territorio nazionale della Bolivia. Fino all’idea ricorrente e particolarmente ambiziosa che le pietre ultra-pesanti utilizzate per costruirlo potessero essere il frutto di una perduta tecnologia di produzione del cemento, nonostante alcuni studi vi abbiano trovato dentro resti fossili delle trascorse epoche terrestri. Perché “Potrebbero aver utilizzato entrambe le cose” affermano alcuni, imperterriti nel dar continuità alle ipotesi più affascinanti e per questo, secondo la loro soggettiva visione del mondo, maggiormente degne di essere prese in considerazione.
E tutto questo senza neanche prendere in considerazione l’aspetto culturale endemico, possibilmente riconducibile alle discontinue nozioni religiose ereditate dal popolo moderno degli Aynara, possibili discendenti della cultura di Tiwanaku. Secondo cui le antiche rovine nei dintorni, ed in modo particolare la monolitica Porta del Sole situata a Tiahuanaco (e secondo alcuni, proveniente proprio da Pumapunku) potesse avere la funzione di fornire ai posteri un possibile sentiero di salvezza per incombenti catastrofi future. Evocando, in qualche modo, la saggia presenza di Viracocha in persona, con il proprio carro celeste capace di condurci all’indirizzo di pianeti lontani. Dove, imprescindibilmente, dovremmo esser pronti a ricominciare tutto da capo.