Scoglio inusitato nel mezzo della tormenta, contorto essere perso nel tempo. Una scultura creata dall’incontro tra la forza inarrestabile e la radicata, inamovibile presenza di un impulso che preserva la vita. E quanto, veramente, può il destino aver prodotto un qualche tipo di effetto, sulla persistente inalienabile presenza, di un qualcosa che da (quasi) sempre esiste, che per (quasi) sempre continuerà a produrre il segno delle sue legnose circostanze. È facile chiamarli, nel complesso, pini dai coni setolosi o bristlecones (ss. Balfourianae) ma forse è maggiormente caratterizzante utilizzar, nello specifico, l’appellativo attribuito ai due singoli esemplari più famosi: Matusalemme, Prometeo. Come altrettanti personaggi d’importanza singolare nella storia religiosa dell’uomo, chiaramente appartenenti ad un contesto straordinariamente antico. Eppure entrambi, a ben vedere, assai più giovani dei rispettivi e omonimi arbusti, la cui vicenda personale è stata dimostrati estendersi a ritroso fino ai margini di quella che potremmo definire in senso lato la Storia. Ovvero, se vogliamo leggere tra le righe, ancor prima che qualcuno fosse in grado di dar vita prolungata ai suoi pensieri! Imprimendoli con fine e laborioso intento su una tavoletta fatta con l’argilla del Tigri e l’Eufrate. E con ciò non stiamo usando alcun tipo di metafora o alternativa via di corrispondenza ai termini della tenzone. Giacche gli alberi citati non sono cloni, né fossili o sfide concettuali al concetto di cosa possa possedere un tronco ed una chioma. Bensì veri e vividi produttori di fotosintesi clorofilliana, mentre le sostanze nutritive ne percorrono gli occulti canali e non tanto teneri virgulti con aghi perpendicolari, in effetti vagamente simili a delle spazzole per ripulire le bottiglie, vengono prodotti all’apice di quei contorti rami. E resta in ogni caso indubbio, se volessimo paragonare tali esseri alla più comune concezione di una pianta, per come potrebbe disegnarla la nostra logica o immaginazione pregresse, che potremmo rimanere inizialmente delusi. Poiché non resta davvero nulla negli esemplari più antichi delle tre specie che costituiscono la sopracitata sotto-sezione del genere Pinus, ed in modo particolare il più iconico e rappresentativo P. longaeva dello Utah, Nevada e California, che possa dirsi capace di soddisfare in noi l’immagine di una pianta comune, in salute o quanto meno “vivente”, nel senso più esteticamente apprezzabile di questo termine. Ricordando piuttosto lo scheletro inusitato di una sorta di dinosauro legnoso, che imperterrito continua a crescere, rigenerando se stesso. Una visione del tutto degna, se vogliamo, d’essere iscritta nell’elenco delle creature ed esseri leggendari della sua Terra…
Ragionevolmente diffusi nei rispettivi territori nordamericani, i tre alberi del gruppo Balfourianae costituiscono da sempre un elemento primario del tipo di paesaggio definito come krummholz o “legno contorto” tipicamente rappresentativo della linea dell’orizzonte sopra i monti di zone sub-artiche ed alpine. Ragion per cui occorre giungere fino alla metà dello scorso secolo, ed in particolare alle ricerche di un singolo naturalista, per giungere alla notazione scientifica della loro impareggiabile longevità. Fu dunque il dendrologo ed astronomo dell’Università dell’Arizona Edmund Schulman, in particolare tra gli anni ’40 e ’50 del Novecento, a recarsi per primo nella terra delle sequoie giganti con l’intento d’impiegare i moderni dispositivi di carotaggio, per tentare di ottenere datazioni precise della loro età e conseguenti informazioni sui pregressi mutamenti climatici della Terra. Un obiettivo che l’avrebbe portato, dopo aver identificato assieme ad un collega un esemplare di Pinus flexilis in Idaho risalente a 1.700 anni a questa parte, un soggetto maggiormente funzionale ai suoi obiettivi nei contorti, assai più piccoli ma nondimeno resistenti alberi dell’attinente genìa. Proseguendo la sua ricerca tra le montagne di White-Inyo in Sierra Nevada, dove avrebbe trovato un’ampia selezione di tronchi databili attorno ai 3.000, 4.000 anni di età, giungendo a confermare e incoraggiare i suoi più ambiziosi sospetti. Eppur senza raggiungere, in senso univoco, lo straordinario record sempre lì annotato da Edmund Schulman e Tom Harlan per il menzionato Matusalemme (Methuselah) nel 1957, i cui anelli più antichi furono determinati risalire al 2833 a.C. Facendone, in altri termini, l’inconcepibile esempio di un singolo albero sopravvissuto per 4.789 anni. Il che non avrebbe d’altra parte raggiunto l’ancor più notevole traguardo del collega Prometeo (Prometheus) di 4.862 anni, orribilmente abbattuto da un tirocinante senza nome del Servizio Forestale Statunitense, dopo che il suo strumento di carotaggio si era rotto nel corso di una spedizione di ricerca sul Wheeler Peak, nel Nevada orientale. Per poi scoprire, soltanto dopo il terribile delitto, quale fosse l’effettiva portata del suo errore. Non che manchi, d’altra parte, la leggenda di un ulteriore esemplare presumibilmente ancor più antico, la cui esistenza venne annotata dallo stesso Tom Harlan nel 2009, poco prima del suo decesso a seguito del quale nessuno, purtroppo, sarebbe stato in grado di trovarlo e poter darne conferma. Ma che in effetti dovrebbe essere, ancora oggi, il singolo essere vivente più antico della Terra, con i suoi dimostrabili 5 millenni e 93 anni di età.
Un’incertezza che deriva, alquanto prevedibilmente, dalla necessità di mantenere segreta l’effettiva collocazione di ciascun vegliardo, pena il destino di esser trasformati in mete di un problematico e reiterato pellegrinaggio da parte dei turisti, con conseguente stato di pericolo costante per la loro sopravvivenza. Come tristemente documentato almeno nel caso di Matusalemme, che per una placca commemorativa disposta temporaneamente innanzi al suo contorto tronco, venne soggetto a reiterato danneggiamento per prelievo di “souvenir” da parte di una moltitudine di vandali irrispettosi. Finché non fu deciso, alquanto tardivamente, di restituirgli l’anonimato di cui aveva bisogno.
Biologicamente singolari, i pini dai coni setolosi sono dunque piante al tempo stesso resistenti e nello stesso tempo fragili se trapiantate dal proprio legittimo ambiente di provenienza. Per la lentezza con cui crescono e l’incapacità d’imporsi all’interno di un comune giardino, laddove prosperano sul terreno poco nutriente delle loro brulle montagne di provenienza, sia in gruppo come nel caso delle specie P. aristata e P. balfouriana, che nella modalità solitaria preferita dal P. longaeva. Dotati di canali per la linfa relativamente radi e perciò largamente costituiti da legno scarno e in apparenza “morto” essi possiedono in realtà una resistenza straordinaria alla marcescenza ed i parassiti, ragion per cui gli antichi tronchi tendono ad erodersi per l’effetto del vento e degli elementi, assumendo l’aspetto di ancestrali colonne costruite per templi ormai dimenticati da secoli o incalcolabili millenni. Una visione, in tal senso, carica di malinconia e grandezza, come meritato da entità capaci di sopravvivere più a lungo della maggior parte delle dottrine filosofiche o prassi concettuali implementati dall’uomo.
Ma chi può dire quali storie essi racconterebbero, se soltanto fossero dotati temporaneamente della parola! Magari non le troveremmo particolarmente interessanti, rispetto alla rapida progressione degli eventi all’interno delle nostre transitorie esistenze. Ed è difficile comprendere a quale delle controparti vada attribuito il limite di tale considerazione. Dinnanzi all’equilibrio imperturbabile di quel costrutto ponderosamente artificiale, che è il tempo.