Nella progressione storica dei gironi e dei giorni, esistono soltanto due possibilità: soffrono le persone, oppure soffrono le nazioni. Entità che sorgono dai vortici dell’ambizione collettiva, per poi espandersi e guardare verso l’indomani con l’intento di trovare un punto d’equilibrio, la condizione statica oltre cui nessuno possa dire: “Fin dove si spinge lo sguardo, tutto quello che vedi è mio!” Un percorso lungo secoli e adesso guarda il risultato: dozzine di famiglie, certe volte ancora intere (che fortuna!) che ansimando immergono le loro stanche membra dentro le acque di quel fiume. Nel disperato tentativo di guadarlo. Nella speranza di potersi ricavare uno spazio là, dove lo spazio è stato de-finito da tempo. Eppur esistono dei luoghi, ove la civilizzazione “propriamente” detta è un mero miraggio distante. Distese brulle o polverose e innumerevoli simili aggettivi deplorevoli, ove il confine tra i paesi non è netto né propriamente definito. Posti dove l’unica maniera disponibile per l’uomo, al fine di tracciare quella linea in modo chiaro e incontrovertibile, è tentare di riuscirci tramite l’impiego dei fiumi. Assurdo, se ci pensi. Poiché cosa muta e scorre, varia il suo tragitto, più dell’acqua nel percorrere la strada che la porta fino ai limiti del mare? Così come faceva, ed senz’altro solito ancor fare il Rio Grande (alias Río Bravo del Norte) con i suoi 3.051 Km sufficienti a renderlo il quarto corso d’acqua più lungo dell’America settentrionale. Nonché suddivisione ragionevolmente in comune, selezionata nel 1840 al termine della Intervención estadounidense en México, un conflitto durato quasi due anni come conseguenza dell’annessione di territori allo stato del Texas da quello confinante di Tamaulipas, dopo la ratifica forzata da parte del presidente del Messico di una serie di trattati ineguali. Realtà di fronte cui i sapienti cartografi statunitensi, ben intuendo la problematica sopra descritta, decretarono che la demarcazione tra i due paesi fosse calcolata in base al punto mediano del suddetto percorso idrologico, fermo restando che qualsiasi deviazione antropogenica in tal senso sarebbe stata ignorata e severamente redarguita dalle autorità competenti. Così negli anni a venire, all’interno delle “dita” formate dai meandri del fiume, nacquero comunità di frontiera, nessuna delle quali più notevole attraverso le sue alterne peripezie ed aneddoti di quella denominata per l’appunto come esso stesso: Rio Grande. Che dal 1845 occupò il tratto di Horcón, uno spazio di 1,67 chilometri quadrati situato dalla parte degli Stati Uniti, ad apparente ed ulteriore sempiterna memoria. Finché qualcuno, alla ricerca di potenziali vantaggi economici, non fece quello che era stato espressamente ed originariamente vietato…
Il nome di quel qualcuno: American Rio Grande Land & Irrigation, compagnia creata con il fine esplicito di agevolare le pur limitate risorse idriche al confine del Messico, fino all’obiettivo finale di costruire una serie di dighe sul fiume omonimo, la maggiore delle quali presso la località di Elephant Butte, 193 Km sopra la città di El Paso. Operando, prima di giungere a questo, in modo tale da massimizzare le potenzialità agricole dell’intera regione, costruendo a tal fine numerosi impianti ed opere finalizzate a veicolare l’acqua dove ce n’era maggior bisogno. Luoghi come i campi, ragionevolmente fertili, antistanti al villaggio di Rio Grande, per raggiungere i quali fu deciso nel 1906 di accorciare uno dei meandri del grande fiume controllandone il flusso, collegando essenzialmente le due gobbe con la forma di altrettante “U”. Un problema… Solamente in linea di principio, visto come il diritto internazionale specificasse in maniera esplicita la necessità di mantenere i confini stipulati tra Stati Uniti e Messico (iniqui o meno che fossero) benché l’operazione non autorizzata si sarebbe comunque dimostrata in grado di costare alla compagnia una multa di 10.000 dollari, equivalenti a circa 300.000 con l’inflazione attuale. Un effettivo ripristino dello stato dei fatti antecedente, d’altra parte, venne giudicato logisticamente troppo complicato e si decise che la Land & Irrigation avrebbe potuto limitarsi a posizionare dei cartelli di demarcazione inamovibili, finalizzati a chiarire dove terminassero i rispettivi paesi. Ciò come potrete facilmente immaginare ed in mancanza d’effettive verifiche, non avvenne affatto, e con la rapida scomparsa del vecchio letto fluviale, dopo un paio di decadi essenzialmente nessuno ricordò più neppure l’esistenza di tale confine, creando una sorta di zona grigia. Verso la metà degli anni Venti, quindi, avvenne qualcosa di assolutamente sconveniente: incoraggiati dal peso normativo del proibizionismo, abili imprenditori messicani individuarono l’opportunità di ricavare un significativo profitto dalle circostanze. E costruendo schiere di casinò, case da gioco, negozi di liquore, bordelli ed altri resort poco raccomandabili, incoraggiarono la formazione di una nuova comunità, molto più gremita e sovrapposta a quella pre-esistente, che venne rapidamente battezzata attorno al 1929 con il nome chiaramente ispanico di Río Rico. Dove tutti accettavano, o comunque davano per scontato, di essere all’interno del territorio Messicano. La situazione subì una rapida inversione di tendenza nel 1933, quando con la fine del proibizionismo le principali attrattive della remota località sfumarono in maniera prevedibile, lasciando schiere di edifici abbandonati e mucchi di polvere trasportati via dal vento. E questa avrebbe anche potuto essere la fine della nostra storia, non fosse stato per l’opera del Prof. di geografia James Hill, Jr. dell’Università dell’Arizona, che nel 1967 scoprì l’alterazione pregressa delle carte a seguito di una verifica dei rilevamenti. Una nota la cui presa di coscienza amministrativa avrebbe portato, con grande e inaspettata magnanimità, gli Stati Uniti a cedere l’intero tratto di Horcón al Messico in forza di uno stato dei fatti acquisiti. Ma le cose, come spesso capita, non si risolsero in maniera tanto semplice ed evidente.
Perché il problema è che una volta che una località cessava di essere americana, lo stesso sarebbe toccato ai suoi abitanti, che in funzione di ciò si ritrovarono privati della lunga schiera di privilegi e fortune derivanti dalla possibilità di chiedere un passaporto statunitense. Fino al caso limite, vissuto da diversi individui incluso Homero Cantú Treviño, di poter essere deportati oltre quello stesso confine che oggi vede l’ombra dei possenti e permeabili muri divisori tra i due paesi. Se non che proprio costui, aprendo la strada ad una questione legale niente affatto indifferente, fece causa allo stato nel 1972, ottenendo una vittoria che avrebbe fatto, come si dice, giurisprudenza. Al che la corte riconobbe, in maniera normativamente incontrovertibile, il diritto a richiedere la cittadinanza per tutti coloro che erano nati a Rio Tinto tra il 1906 e il 1972, a patto che potessero dimostrare il verificarsi di tale evento dalla parte corretta della “linea invisibile” costituita dal punto mediano del fiume scomparso. Furono inviate a tal fine richieste da ogni parte del mondo, e la commissione incaricata di vagliarle fu tutt’altro che permissiva. Alcuni furono scartati, ad esempio, per essere venuti al mondo in particolari zone della propria dimora, la cui collocazione venne giudicata inadeguata all’acquisizione di cittadinanza dovuto allo ius soli. Coloro che ci riuscirono, invece, si affrettarono a lasciare questa zona ormai desolata verso i limiti dello stato di Tamaulipas, trasferendosi nella parte meridionale dei grandi Stati Uniti. E così il destino di costoro si dimostrò deciso, ancora una volta, da una disposizione arbitraria implementata da tutti e nessuno, coadiuvata dal bisogno transitorio di deviare ciò che la natura aveva tratteggiato in un determinato modo. Prima di fare i conti con l’infinita ed incrollabile ambizione del suo grande sfruttatore.
Ma lo scorrere indefesso degli anni e le pertinenze non può fermarsi. Ed è soltanto chi vi nuota indefesso, pinne, scaglie e bocca semi-aperta, che può dirsi realmente libero da imposizioni e pretese imposte dagli insigni predecessori e le strutture che continuano a derivarne. Finché l’amo ascendente del sovrintendente, avendo assolto allo scopo primario della sua esistenza, non provvederà a capovolgere la progressione auspicabile degli eventi.