Nei diari di viaggio di Odorico da Pordenone, missionario francescano del quattordicesimo secolo, spicca in modo particolare l’interessante e terribile descrizione di una celebrazione a cui egli assistette presso la città di Puri, nella parte orientale dell’India. Occasione durante cui gli abitanti del posto si erano riuniti per rendere omaggio alla divinità suprema Jagannath, una delle possibili incarnazioni di Vishnu, mediante la sfilata di un tempio mobile su ruote grande quanto un edificio di diversi piani, da spingere laboriosamente lungo il viale principale in mezzo alla gente. Persone il cui destino, dinnanzi allo sguardo sconvolto del religioso, pareva essere quello di gettarsi intenzionalmente sotto le sue ruote, perendo orribilmente per la maggiore gloria della divinità. Inutile dire come oggi si ritenga, grazie alla logica, che l’impressione riportata dal viaggiatore medievale possa essere stata un mero fraintendimento, a seguito di uno o più incidenti che potrebbero essersi verificati durante la suddetta occasione. Eppure a seguito di tale racconto, successivamente confermato dalle opere dell’esploratore inglese John Mandeville (tra il 1357 e il 1371) la connotazione impressionante del prestito linguistico della lingua anglofona juggernauth sarebbe rimasto come antonomasia di qualcosa d’imponente ed inarrestabile, la cui presenza incombe minacciosa contro l’incolumità di chiunque sia abbastanza folle da mettersi sul suo cammino. Una visione che, sebbene poco rispettosa dell’effettivo intento e logica di un evento come questo, in genere proporzionato all’effettiva popolazione e quindi portata massima di ciascuna comunità, certamente trova almeno una parziale riconferma nel più imponente esempio di oggetto votivo mobile esistente al mondo, l’Azhi Ther con le sue 300 tonnellate e 30 metri d’altezza. Praticamente un’intera palazzina su imponenti ruote costruita presso la città di Thiruvarur con la sua popolazione superiore a 58.000 anime nello stato meridionale di Tamil Nadu, la cui citazione più remota è risalente addirittura al 1123 d.C, in un’epigrafe risalente al regno di Vikrama dell’impero dei Chola. Dove viene identificato come il punto principale della celebrazione tenuta all’inizio di aprile, durante cui una statua del santissimo Veethividangar, ovvero l’avatar venerato localmente di Shiva in persona viene tutt’ora portato fuori dal grande tempio di Thyagaraja Swamy, grazie alla pura energia muscolare dei suoi devoti. Mentre i guru ed altri membri del clero si abbandonano a una danza silenziosa e dal significato mistico tutt’altro che evidente. Ed è una visione straordinaria ed impressionante, quella della cupola multicolore che oscilla imprevedibilmente nel vento, in mezzo ad edifici che non raggiungono neppure la sua altezza, le lunghe corde che si estendono in mezzo alla folla, ciascuna saldamente mantenuta in pugno da una schiera apparentemente senza fine di entusiastici ed infaticabili partecipanti. Il cui sforzo e senso di abnegazione, tuttavia, non raggiunge neanche lontanamente quello degli esperti addetti ad una delle operazioni più difficili e rischiose immaginabili: trovare, in qualche maniera, l’effettiva maniera di fermare il carro.
Ora, vi sono alcune ragionevoli concessioni alla modernità nell’accezione attuale della festa di Thiruvarur, tra cui l’impiego di una coppia di bulldozer per sbloccare la situazione ogni qual volta i pur leggeri gradienti cittadini, in una maniera o nell’altra, causano rallentamenti eccessivi del juggernauth. L’edificio semovente stesso, tuttavia, resta sostanzialmente immutato da parecchi secoli in ogni suo aspetto inclusa l’assenza di equipaggio a bordo e le imponenti ruote in legno, del tutto prive di alcun sistema frenante. Il che può anche avere un senso, quando si considera l’impressionante temperatura implicata dall’applicazione di attrito ad un oggetto dalla massa tanto significativa, persino a velocità estremamente ridotte, così da generare potenziali scintille o deflagrazioni dell’intero apparato. Ragion per cui in maniera tradizionalista, l’effettiva riduzione del ritmo di marcia viene garantita dai partecipanti tramite l’applicazione di una serie di strumenti a forma di cuneo, simili a dei fermaporta sovradimensionati con una maniglia. Il cui fato appare essere quello di finire schiacciati e surriscaldarsi, mentre vengono gettati sotto il corso del veicolo, con considerevole rischio all’incolumità degli incaricati. Una procedura durante cui non è affatto inimmaginabile il verificarsi d’incidenti come quelli descritti da Odorico, con una casistica effettiva di svariate vittime nel corso dell’ultimo decennio. Non tanto durante la festa di Thiruvarur, il cui decesso maggiormente eccelso resta quello del gran sacerdote del tempio Murali Sivachariyaar, perito nel 2019 cadendo dalla sommità del carro durante le operazioni di allestimento, bensì in numerosi altre contingenze simili all’interno del paese. Vedi il capovolgimento, soltanto nel corso dell’ultimo anno, del carro di Pudukkottai lo scorso luglio, costato 10 feriti di cui uno avrebbe in seguito perso la vita, o l’incidente causato dalla perdita di controllo di quello di Kali Devi, che avrebbe indotto il ferimento tra i devoti di ulteriori 10 e la morte di 2. Per non parlare del caso, ancor più eclatante, del juggernauth di Thanjavur finito contro le linee dell’alta tensione, veicolando uno shock rivelatosi letale per 11 dei presenti. Lo stesso carro di Thiruvarur era del resto andato a fuoco l’ultima volta nel 1926, causando un’interruzione di quattro anni nella celebrazione della festa locale, poi ripetutasi tra il 1948 e il 1970. Non è perciò difficile confermare un livello di rischio latente tutt’altro che trascurabile, al centro di occasionali proteste nei confronti del governo, per l’implementazione di norme di sicurezza maggiormente stringenti. Ma la celebrazione di questo tipo di feste resta un nodo culturale importante, oltre a un’occasione di creare ricchezza tramite il turismo, il che rende difficilmente percorribile qualsiasi tentativo di limitarle. Già nel 1976, ad esempio, i templi semoventi venivano commemorati come simbolo dell’intero paese in occasione dell’inaugurazione del memoriale dedicato al poeta classico della cultura Tami, Valluvar presso la città di Chennai, capitale del Tamil Nadu. Un monumento scolpito nella pietra dell’altezza di 39 metri, con la guisa riconoscibile dello stesso carro di Thiruvarur. Ma fortunatamente privo, visto il suo peso probabilmente spropositato, delle prerogative strutturali necessarie a spostarsi…
Luoghi sacri come l’antico tempio di Thyagaraja Swamy, con i suoi svettanti gopuram (portali a torre) ornati da una letterale schiera di sculture policrome degli Dei, costituiscono da tempo immemore un importante asse religioso dell’India meridionale, fin dalla prima implementazione come prestigiose dimostrazioni dell’influenza dei sovrani di un tempo. Questa istituzione in particolare, coi suoi 30 acri di estensione ed il suo lago sacro tra più vasti di tutta l’India, fu costruito attorno al settimo secolo quando un re Chola di nome Mucukunta chiese in una preghiera che gli fosse data in dono dal cielo un’immagine sacra di Vishnu, occasione nella quale gli rispose invece Indra, il sovrano dei demoni infernali. Il cui tentativo di sviarlo andò incontro a un fallimento, lasciando che le false statue fossero disseminate per gli altri templi attorno al delta del fiume Cauvery, mentre quella reale venne posta nel sacrario di Thiruvarur. Rimasto un sacro punto di riferimento anche nei secoli a seguire, nonostante le successive riconquiste ed i saccheggi perpetrati nella città dai sultanati dei Mughal e la successiva confederazione Maratha, entrambi interessati a controllare le fertili terre dell’odierno stato del Tamil Nadu. E con esse i cuori ed il rispetto della gente di qui, il che avrebbe sempre, inevitabilmente, richiesto il mantenimento e la conservazione delle antiche usanze. Inclusa la marcia ricorrente del grande carro, così idealmente simile alla visione di una macchina impossibile da sottomettere al volere dei potenti. E che poteva essere fermata soltanto tramite copiose quantità di proverbiale lacrime, sudore e l’occasionale, tristemente inevitabile oncia di sangue.