Il principio collaborativo che condanna gli striscianti abitatori del pantano inquinato

Per lunghi mesi, anni e decadi di vita, la collettività indefessa si era concentrata nel profitto delle proprie attività comunitarie. Alte mura, lunghe strade, complicati impianti chimici e altrettanti ponderosi opifici. Ciò che in tale progressione costituiva il fondamento delle gesta umane, nella maniera più o meno riservata all’inavvicinabile settore inconscio del senso comune, era la ragionevole certezza che di contro la natura si stesse ritirando dagli spazi condivisi, nella maniera al tempo stesso malinconica e funzionale alla realizzazione dei nostri progetti operativi di partenza. Così lo sguardo perso verso l’orizzonte, parallelo al pelo permeabile dell’acquitrino sul perimetro della coscienza, non poteva penetrare oltre gli strati di una tale superficie, per vedere la marea vermiglia che tendeva a soggiacere, crescendo ed aumentando, replicandosi indefessa e indifferente alle diverse aspirazioni della vita comunitaria. Che non fossero, semplicemente: mangiare, accumulare risorse energetiche ed infine individuare un possibile sentiero, qualsiasi fosse il metodo effettivamente scelto, per produrre valide generazioni successive della propria schiatta antica e nobile tra gli Oligochaeta. Vermi clitellati ovvero con la significativa caratteristica di un vistoso rigonfiamento lungo il proprio corpo serpentino, ospitante l’apparato sia maschile che femminile utile a produrre il bozzolo delle risultanti uova preventivamente ed opportunamente sottoposte a fecondazione. Il che non basta a rendere le creature cosmopolite sotto l’obiettivo dell’odierna analisi, il cui nome per antonomasia è solamente tubifex indipendentemente dalla specie di appartenenza, in altro modo simili o riconducibili al rassicurante verme di terra o lombrico, di cui ogni cosa nota viene confermata nell’esperienza diretta che tendiamo a farne in occasione di un’infanzia trascorsa nei giardini o il successivo hobby altrettanto diffuso della coltivazione vegetale. Col che non voglio certo dire che i qui presenti abitatori degli strati meno attraenti sul confine tra città e natura, non a caso detti in modo alternativo “vermi degli scarichi” o “delle fognature” siano totalmente privi di un ruolo utile al proprio distintivo spazio ecologico di appartenenza. Cui tende ad associarsi, nondimeno, l’implicita tendenza a suscitare un senso di spiacevolezza o vero e proprio disgusto, variabile dal punto di vista dell’osservatore in base alla propria confidenza coi processi meno conosciuti della natura. Soprattutto nel punto di svolta della loro semplice esistenza quando, sentendosi minacciate o in altro modo a rischio, le gremite colonie di siffatta creatura si ritrovano impossibilitate a nascondersi scavando in un sostrato friabile di sabbia e/o ghiaia. Da cui sorge l’opportunità, iscritta a chiare lettere nell’istinto che guida ogni loro tipica reazione, ad aggrovigliarsi vicendevolmente in una massa indivisa. Ammasso rosso e tanto spesso definito su Internet come “Un’unica creatura in grado di preservare la propria sopravvivenza.” Il che purtroppo, a discapito del pensiero ottimistico della maggioranza e soprattutto per i diretti interessati, non potrebbe essere più lontano dalla verità dei fatti…

L’apprezzamento di questa vasca di pesciolini per una piccola manciata di tubifex è assolutamente palese. Peccato non ci sia possibile, ne in alcun modo consigliabile, avvicinarci ad un così appetibile alimento.

Il tipico esponente del genere Tubifex, parte della famiglia degli anellidi acquatici dalle poche setole dei Naididi, è dunque una creatura della lunghezza variabile tra i 20 e i 100 millimetri, di un colore rosso vermiglio dovuto al suo alto contenuto di emoglobina. Il che ha portato tradizionalmente ad accomunarlo alla categoria dei vermi del sangue (o bloodworm) comunemente usati come esche per pescare, benché questi ultimi siano effettivamente creature soltanto lievemente imparentate che appartengono a varie sotto-divisioni della vasta famiglia dei Glyceridae, dotati di parapodia, ovvero piccole appendici utilizzate nella deambulazione. Un tipo di attività inerentemente complessa da utilizzare con creature tanto più minute e soprattutto sottili come una stringa, il che le porta in modo rapido ad aggrovigliarsi con i propri simili rendendo assai difficile la trafittura con un amo di una quantità di biomassa indivisa e sufficiente ad attirare una trota. Laddove l’effettivo e come sempre inevitabile utilizzo dei tubifex a beneficio dell’umanità avviene in un settore nettamente distinto dello sfruttamento ittico, comunemente definito come quello degli acquari e la piscicoltura. Per cui le circostanze non parrebbero offrire, indipendentemente dalla tipologia di pesci fatta oggetto della nostra attenzione di giornata, una fonte di proteine più valida di questa, né il fondamento di una dieta altrettanto salutare per i nostri pinnuti amici. Questo per la facilità che i vermi rossi sanno dimostrare nel riprodursi e proliferare, dietro la coerente fornitura di materiale commestibile di qualsivoglia immaginabile natura: vegetale, animale, persino i propri stessi consimili recentemente passati a miglior vita. Tratteggiando una questione delicata in merito all’effettiva scelta della modalità di procura, difficilmente valida se proveniente da uno stagno sui confini dell’ambiente urbano, prevedibilmente inquinato da ogni sorta di scoria e batteri. In quanto detritivori innati ed ermafroditi (nonché capaci di riproduzione autonoma se necessaria) i vermi tubifex sono infatti capaci ed inclini a digerire essenzialmente qualsiasi cosa, senza risentirne in modo apprezzabile nei propri presupposti d’implicita sopravvivenza. Il che li rende potenziali vettori di un’alta quantità di sostanze contaminanti o pericolosi parassiti come il Myxobolus cerebralis, l’agente eziologico della putrefazione dei salmonidi, ben presto letale. Per non parlare dall’alto contenuto di microplastiche, del tutto inoffensive per loro ma non così per gli eventuali successivi occupanti della catena alimentare. Ragione ulteriore per cui un’ipotetica consumazione alimentare sistematica da parte degli umani, presenti o futuri, risulta essere per una volta tanto improbabile quanto poco attraente alle ragioni gastronomiche dell’attuale collettività globalizzata. La quale di suo conto, soprattutto prendendo in analisi i paesi dell’Asia meridionale, mentre soltanto alcune prototipiche aziende iniziano a darsi da fare in Occidente, non ha fatto a meno d’implementare varie soluzioni utili all’allevamento su larga scala di queste creature a supporto dell’allevamento ittico, potendo in questo modo controllare attentamente la loro alimentazione e promuovendone un’impiego maggiormente coscienzioso e privo di controindicazioni latenti.

Nella forma collettivamente abbarbicata i vermi assomigliano vagamente a una poltiglia o dell’ottima pasta di fagioli azuki d’importazione giapponese. È soltanto quando li si metterà di nuovo in acque meno affollate, che essi torneranno lietamente a torcersi e nuotare.

Una tendenza o moda che parrebbe aver lasciato spazio, soprattutto su YouTube, ad un’alta varietà di video dimostrativi e tutorial di varia natura, finalizzati alla spiegazione delle modalità maggiormente corrette per gestire e massimizzare la resa dei vermi in oggetto, generalmente raccolti e poi fatti proliferare in cattività. Non senza preoccuparsi, nello specifico, di mantenere l’acqua scorrevole e dividere periodicamente i grumi troppo grandi di vermi mediante l’utilizzo di una forchetta. Un particolare passaggio, quest’ultimo, che ci permette finalmente di comprendere l’effettiva problematica ed autodistruttiva tendenza alla formazione di “ammassi” messa in pratica nel caso mostrato in apertura. Non tanto il sublime metodo di auto-determinazione teorizzato da alcuni, ipoteticamente affine a quello posseduto da talune specie di formiche che si abbarbicano l’una all’altra per formare zattere capaci di sopravvivere alle occasionali inondazioni delle rispettive terre d’appartenenza… Bensì una sorta di ultima risorsa usata dai nostri amici vermigli, che tenta forse di scoraggiare i potenziali predatori mediante la forza percepita del gregge. Con modalità non propriamente nata da opportuni consigli, come certe volte avviene nonostante la pregressa selezione dei processi evolutivi pendenti. Perché ciò che inevitabilmente tende ad avvenire nel momento stesso in cui i vermi si abbarbicano l’uno all’altro, ci narra a tal proposito l’utente di Reddit TFDangerZone2017 che ne possiede un allevamento in Australia, è l’immediato soffocamento degli strati interni dell’ammasso, con un progressivo effetto a cascata verso il resto del groviglio pulsante. Ed alla fine… L’oblio.
Che una forma di vita in grado di resistere alla pressione ecologica dell’odierna società industrializzata possa essere, alla fin della fiera, la peggior nemica di se stessa è di per se una sorta di crudele ironia. Ed è difficile per questo immaginare circostanze meno utili per la proliferazione di una simile categoria vivente che l’adattamento ad occupare quella zona di confine che si è confermata, attraverso gli anni, come loro ambiente ideale. Il bocchettone al termine degli impianti, lo stantuffo della tecnologica balena. Il mar maleodorante che in un tempo progressivamente più vicino potrebbe, un giorno, sostituirsi a quello che costituiva l’ultima parte incontaminata del nostro singolare pianeta. In cui il saliente destino dei più piccoli dovrebbe far riflettere i presunti e incontrastati dominatori delle circostanze. Sui propri istinti meglio “collaudati” e tutto quello che tendenzialmente ed inevitabilmente tende a derivarne.

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