Sta sollevando un certo grado d’interesse la notizia secondo cui dallo scorso 31 gennaio i passanti di Leopard Street nel popolato quartiere Tribeca della Grande Mela possono ammirare con i propri occhi uno spettacolo piuttosto insolito: l’oggetto fuori dal contesto di un ovoide dalla forma schiacciata, incastrato ad arte sotto uno degli spigoli del recente, lussuoso ed affascinante palazzo soprannominato la Torre Jenga, a causa della forma sporgente dei suoi balconi ed appartamenti. Ad arte perché si tratta, per l’appunto, di un’opera del celebre artista di origini indiane naturalizzato britannico Anish Kapoor, già autore rinomato della simile struttura posizionata in mezzo al verdeggiante Millennium Park, nella sponsorizzata AT&T Plaza di Chicago, ad oltre 1.200 Km di distanza. Creando una sorta di linea di collegamento ideale tra le due grandi città americane, ciascuna dotata delle proprie attrazioni e monumenti, ed ora entrambe abilitate a far riflettere la gente sulla propria posizione e ruolo nell’immensa struttura dell’Universo, tramite la loro immagine riflessa nelle distintive forme di tali strutture vagamente ultraterrene. Così come prosegue la tematica di fondo, importantissima per quello che costituisce uno dei creativi dell’epoca post-moderna più pagati ed influenti della nostra Era, di creare una letterale ed efficace Porta del Cielo in acciaio inossidabile, titolo non casualmente attribuito all’originale (“Cloud Gate”) e più famoso esempio in prossimità delle sponde del lago Michigan, qui meramente riproposto ad una stazza sensibilmente più piccola di 40 tonnellate, contro le 100 dell’eponimo ispiratore. Una creazione nondimeno… Impressionante, a suo modo, per la maniera in cui compare all’improvviso mentre si procede sul sentiero urbano, non come pezzo forte di un allestimento visitabile sul tetto di un ristorante, in maniera analoga all’alternativa, bensì incorporato per un vezzo momentaneo nella struttura già notevolmente insolita del palazzo che in larga parte contribuisce a mantenerlo in ombra. Il che non potrebbe essere maggiormente lontano dalla verità, visto l’investimento per averlo effettuato dal costruttore Izak Senbahar pari a 8 milioni di dollari, tra le plurime incertezze dei suoi banchieri e partner d’affari. Nel posizionamento ideale di un luogo i cui appartamenti hanno per inciso un costo unitario che si aggira tra i 3,5 e 50 milioni di dollari e nel quale si è anche trasferito, a partire dal 2017, lo stesso Kapoor. Potendo in tal modo beneficiare di una vista diretta sull’ansiogeno ritardo che ha condizionato il completamento della sua scultura, dovuto principalmente all’insorgere del Covid negli anni passati ma anche l’inerente complessità nel costruire qualcosa di tanto inusuale, già largamente sperimentata dalla stessa compagnia metallurgica Performance Structures Inc, l’originale autrice materiale del “fagiolo” posto al centro metafisico della Città Ventosa. Soltanto per vederlo ribattezzato entro breve tempo dai nativi col suddetto soprannome, originariamente estremamente inviso allo stesso Kapoor fino alla progressiva rassegnazione ed un tardivo senso d’autoironia, dinnanzi al plebiscito popolare che si è già ampiamente ripetuto per la città di New York. Tanto che nel presente ed attuale caso, almeno stando alla stampa generalista, la sua opera non sembrerebbe neanche possedere un titolo ufficiale, essendo già stato denominato dal pubblico e la stampa con l’ancor più dissacrante termine di “mini-bean”. Il quale non sembrerebbe aver fatto molto, in questi primi giorni dalla silenziosa inaugurazione, per incrementare il valore della percezione pubblica di una così distintiva e notevole installazione…
Lo stesso grande pubblico, almeno a giudicare dalle interviste pubblicate da svariati notiziari e sui giornali cittadini, sembra in effetti nutrire un certo livello d’antipatia istintiva nei confronti del nuovo fagiolo, vedendolo alternativamente come un’infrazione dell’unicità e ideale copyright dei Chicagoens nei confronti del loro punto di riferimento tra i più celebri, ed al tempo stesso qualcosa di paradossalmente “insufficiente” a distinguersi, nel panorama maggiormente turistico della Big Apple della Costa Est. “Lasciate alla gente del Michigan le loro sculture riflettenti, noi abbiamo l’Empire State Building e la Statua della Libertà” dichiarano alcune voci di un coro relativamente gremito, creando una sorta di falsa equivalenza tra le più improbabili e stupefacenti viste dalla nostra posizione d’Oltreoceano, effettiva priva di offuscati sciovinismi o secondi fini. Il che pare cancellare l’effettivo posizionamento della nuova e più piccola Cloud Gate come culmine di un discorso continuativo nel tempo, iniziato dall’artista già nel remoto 2001 con l’installazione a Nottingham dello Sky Mirror, un letterale specchio concavo-convesso utilizzato per riflettere, ed al tempo stesso avvicinare il cielo agli spettatori. Forse la prima installazione pubblica facente parte della serie dedicata dall’autore alla proiezione osservabile dell’Infinito, ovvero un metodo perfettamente funzionale a scorporare l’empirico per trasferire la mente oltre gli spazi topologici della pura astrazione. “Le mie opere? Non hanno un vero significato.” Ama a tal proposito ripetere l’eloquente artista: “Esse pretendono di offrire un punto di partenza per elaborare uno specifico ragionamento.” Il che molto comprensibilmente tende a eludere il passante casuale che fa jogging o porta il cane nella passeggiata mattutina lungo Leopard Street, come la signora intervistata per l’occasione dalla rivista Curbed, che si è detta sollevata in quanto finalmente gli abitanti del palazzo potranno dormire sonni tranquilli, senza il rumore costante dell’impresa incaricata di ultimare l’oggetto alieno. Così l’antipatia pubblica nei confronti dei fagioli venuti-dopo non è affatto un sentimento nuovo negli Stati Uniti, già sperimentato ai tempi del posizionamento dell’altra opera Cloud Column nel 2006 presso la scuola d’arte Glassel di Houston, in Texas. Un diverso tipo di scultura proiettata verso il cielo e forse maggiormente assomigliante ad una fava (se vogliamo dare seguito alle similitudini) capace di attirarsi numerose critiche per le più arbitrarie delle ragioni, inclusa quella di essere stata selezionata e comprata solo successivamente al completamento del Cloud Gate di Chicago, nell’opinione di alcuni al fine d’imitarne e cavalcarne il successo. Idea almeno parzialmente smentita dalla costruzione in realtà molto antecedente dell’opera, concepita per la prima volta negli anni ’90 ed assemblata, diversamente dagli altri due fagioli, mediante l’utilizzo di una metodologia manuale che contribuisce a renderla meno perfetta e priva delle benché minime asperità superficiali.
Una spontanea e continuativa resistenza, nei confronti di così attraenti opere d’arte, che potremmo almeno in pare attribuire al poco senso d’empatia del pubblico di Internet nei confronti di Kapoor, più volte associato a un certo indesiderabile livello di elitismo, sconvenientemente interconnesso la mondo degli artisti contemporanei. Per una serie, ancora una volta, di sfortunate contingenze e fraintendimenti, a partire dalle multe più volte attribuite dalla città di Chicago ai fotografi professionisti che fotografavano la sua opera più famosa (in un “luogo pubblico che non sembra più essere tale”) fino alla lunga diatriba per l’ottenimento del diritto esclusivo nel mondo dell’arte del colore Vantablack, il cosiddetto nero assoluto. Prerogativa in effetti relativa all’acquisizione di un accordo privilegiato stipulato con la compagnia aerospaziale produttrice del pigmento, la Surrey Nanosystems, come risultanza di un elaborato processo consistente nell’utilizzo dei nanotubi di carbonio. Azienda la quale, per sua stessa ammissione, non aveva particolari interessi ad allargare un simile accordo così fuori dal suo normale ambito operativo.
Sistemi complessi e materialmente fuori dagli schemi particolarmente cari all’artista dei fagioli riflettenti, essi stessi frutto di un processo considerato originariamente impossibile, fino al coinvolgimento della sopracitata Performance Structures, essenzialmente l’unica compagnia capace di garantire un tipo di saldature tra i pannelli metallici sufficientemente perfette da risultare a tutti gli effetti invisibili, nonché modalità di assemblaggio capaci di resistere alla deformazione termica garantendo una longevità dell’opera ufficialmente garantita per “fino a un migliaio d’anni”. Un approccio capace di sottintendere, nel caso della scultura newyorchese, un sistema di montaggio e sospensione ancor più complesso dell’originale, integrato nella struttura della Jenga Tower in modo tale da evitare il formarsi d’indesiderabili crepe nella struttura cromata dell’oggetto, come quelle momentaneamente inclini a manifestarsi sull’ovoide ancora incompleto nel periodo più caldo dell’estate scorsa.
Problemi indubbiamente significativi per chi cerca di ottenere l’imponderabile, donandogli una forma che costituisce l’alfa e al tempo stesso l’omega del suo intero percorso concettuale. Così come l’ingegnoso Kapoor, in plurime occasioni antecedenti, si è mostrato capace di fare mediante la realizzazione di gorghi motorizzati, muri di cera rossi semoventi e cannoni capaci di sparare quello stesso materiale, come un raro esempio di arte partecipativa nelle austere sale di alcuni dei palazzi più prestigiosi al mondo… E come dimenticare, a tal proposito, la volta in cui fece allestire nelle gallerie dell’Accademia di Venezia una pluralità di letterali buchi neri, voragini verso l’ignoto in grado d’interrompere gli spazi architettonici riservati dalla storia stessa. Tutte visioni straordinariamente feconde, per lo meno all’interno del contesto appropriato. Ma non è forse questo, in ultima analisi, il nesso centrale dell’intera questione? Un’opera d’arte pubblica va incontro ad opinioni divergenti e dalle basi di partenza maggiormente imprevedibili. E qualche volta non ci serve alcuna pianta magica, per raggiungere gli spazi iperborei della nostra (il)limitata immaginazione.