Lo stormo che si eleva sul paesaggio tenebroso, successivamente all’ora del tramonto del sole. Ali oscuri per oscuri presagi, come amava ripetere qualcuno, soprattutto se di un tipo membranoso accompagnato dal caratteristico squittente verso d’ecolocazione pipistrellesca. Ma il signore della notte, forma alternativa del vampiro, non è il solo membro di un gregario gruppo di volatili che cercano soddisfazione successivamente alle ore tarde dell’estendersi pomeridiano del mondo. Poiché ci sono esseri, all’estremo capo dell’estensione territoriale dei continenti, la cui organizzazione oraria potrà anche essere simile, ma per il resto si conformano a uno stile di vita maggiormente conforme al mare e le sue regole imposte nei confronti di ogni essere vivente, volatile o meno. Lontanissimi parenti, se vogliamo, dei più comuni e inconfondibili gabbiani, soavi mangiatori dei minuti ed ogni pesce che si trovi per casistiche malcapitate ad incrociare il loro sguardo assassino. Ma anche: spazzatura, resti di cibo, pezzi di panino da sottrarre in modo pressoché diretto dalle mani degli avventori umani. Tutti ausili alla sopravvivenza che non fanno parte del sentire delle alchette, soprattutto per il loro areale esteso ma ben definito, che le colloca primariamente su una parte dell’arcipelago delle Aleutine, ad oriente della Siberia con particolare concentrazione presso le isole Komandorskie o “del Comandante”, patria di oltre un milione di uccelli generalmente distribuiti in ampie colonie interspecie. Eventualità accertata, entro una certa misura, anche per l’Aethia pygmaea assieme a sua cugina l’Aethia cristatella (di cui un precedente articolo) sebbene entro i confini ragionevoli di soluzioni quotidiane essenzialmente distinte. Ciò in quanto la seconda e ben più piccola membra dello stesso genere, come esemplificato dai chirotteri di paragone sopra menzionati, condivide la stessa nicchia ecologica ma non l’agenda, causa la propria appartenenza al novero piuttosto vario degli animali notturni. Un valido approccio, se vogliamo, al passare inosservata per quanto possibile dall’aggressivo sguardo dei predatori, accorgimento particolarmente utile per un uccello di appena 37 cm di apertura alare e 135 grammi di peso. Sebbene presenti il notevole problema evolutivo di come fare, ad ogni termine dei propri voli esplorativi e di foraggiamento, a navigare senza luce negli angusti pertugi dei propri tunnel lavici o pertugi del ghiaione, se non veri e propri passaggi verso il sottosuolo delle circostanze, ove preferiscono stabilirsi nel periodo di riproduzione e non solo. Ma poiché la natura non può essere chiamata in alcun modo, se non straordinariamente ed implacabilmente creativa, nel caso dell’alchetta ciò è un segreto che può essere chiarito in modo molto semplice tramite l’osservazione. Di quel volto inconfondibile e striato, impreziosito non soltanto dalla stessa cresta della controparte sin qui citata, ma una stravagante collezione di piume arcuate simili ad antenne d’insetto. Sensibili ed attente, come le vibrisse tattili del gatto…
Un singolare caso di convergenza dunque, se vogliamo, tra quadrupedi terrestri e bipedi volatori. Lungamente sospettato e scientificamente descritto nel 2008 da uno studio di Sampath Seneviratne e Ian Jones della St. John University dell’isola di Terranova, che non senza un pizzico di spietatezza procedurale, hanno proceduto a mettere una serie d’uccellini dentro un labirinto senza luce, dopo aver bloccato in parte con il nastro adesivo le piume facciali di un terzo di loro, e totalmente quelle di una quantità equivalente. Iniziativa a seguito della quale, come potrete facilmente immaginare, i membri della specie sottoposti alla costrizione maggiore risultavano meno efficaci nella navigazione, sbattendo più volte il becco e la testa contro i limiti degli stretti passaggi obbligati dall’uomo. Il che non è d’altronde un tipo di casistica del tutto ignota anche in natura, visto come tali attrezzi utili alla percezione siano persi dall’uccello al termine di ciascun periodo riproduttivo, grosso modo corrispondente all’estate boreale, per poi tornare all’insorgere della successiva primavera. Questo nonostante un’altra, singolare caratteristica dell’alchetta pigmea, talmente rara da distinguerla non soltanto all’interno del suo genere, bensì addirittura l’intero catalogo degli uccelli “puramente” marini di ogni parte del mondo: l’assoluta mancanza di propensioni migratorie. Che porta questo uccello pescatore, primariamente incline a nutrirsi di plankton come gamberetti e cobepodi di varia natura, a spingersi soltanto raramente a più di 10 Km dalla sua costa natìa, dove continua a soggiornare per l’intero prolungarsi dei mesi invernali. Periodo durante il quale, a quanto osservato, riesce a sopravvivere integrando la propria dieta tramite sessioni di caccia sulla terraferma, alla ricerca di vermi, insetti ed altre creature la cui esistenza viene normalmente ignorata da ogni caradride, gabbiani inclusi. Fino al ritorno del periodo della primavera quando ciascuna coppia, diversa annualmente, provvederà ad istituire il sito sotterraneo del proprio nido (nessuna costruzione necessaria) un pertugio ove la femmina potrà deporre un singolo uovo covato da entrambi i genitori. Che normalmente inizierà a schiudersi dopo un periodo di 35-36 giorni, cui farà seguito la nascita del pulcino che dovrà essere nutrito ed accudito per ulteriori 40, fino all’acquisizione dell’indipendenza e conseguente capacità di volare via dal nido durante le ore più profonde della notte. L’inizio di una nuova, straordinaria avventura tra gli scogli e non lontano dalla propria stessa isola di provenienza. Un’ulteriore nozione, certamente interessante per quanto difficile da verificare: pare che le piume dell’Aethia pygmaea, se annusate, restituiscano la sensazione di un vago profumo di limone, diversamente da quello simile al mandarino posseduto dall’A. cristatella. Una dote la cui specifica funzione evolutiva risulta particolarmente difficile, se non del tutto impossibile da individuare.
Creatura fortunatamente non associata ad alcun tipo di rischio di sopravvivenza, grazie alla capacità di proliferazione, la remota collocazione delle proprie terre di appartenenza e la vastità dell’areale occupato, l’alchetta baffuta ha nondimeno sofferto di una progressiva riduzione della popolazione complessiva nel corso delle decadi successive alla sua scoperta, nel 1789 ad opera del naturalista Johann F. Gmelin. Questo per due fattori particolarmente sfortunati, il primo dei quali è lo sbarco inevitabile del ratto nero dal ponte incatramato delle prime navi degli esploratori giunti fin quaggiù. Creatura insidiosa particolarmente incline ad occupare gli stessi ambienti sotterranei frequentati dal piccolo caradride, con conseguenze tristemente facili da immaginare per i suoi inermi pulcini. Ed in secondo luogo la problematica forse più recente, ma altrettanto letale, delle luci notturne utilizzate dai pescherecci, attrazione irresistibile per le alchette in volo, che frequentemente vanno a sbatterci contro subendo conseguenze per lo più letali. Una conseguenza certamente involontaria della condivisione accidentale di ampi spazi, ma che nonostante tutto, non parrebbero essere ampi abbastanza.
Perché di certo, nessuno avrebbe voluto arrecare intenzionalmente danno ad animali tanto graziosi e distintivi, capaci di compiere evoluzioni collettive sulle rocce che circondano alcune tra le terre emerse più remote e irraggiungibili della Terra, spingendosi oltre la linea dell’orizzonte alle ore del vespro ed identificando a vantaggio dei navigatori la vicinanza il più probabile punto d’approdo. Eventualità da celebrare, oggi come allora, con un silenzioso senso di sollievo e una possibile preghiera nei confronti del Dio Nettuno. Poiché il vasto oceano non conosce facilitazioni, sia per gli abitanti della superficie che gli starnazzanti visitatori degli strati superni dell’atmosfera. Nostri compagni irrinunciabili, nella fruizione di risorse brulicanti condivise che precorrono e continuano ad esistere indefesse, oltre gli strati dell’impenetrabile velo salmastro della verità marina.