Nel 1790 il colono del Nuovo Mondo John Bartlett, sbarcando presso il villaggio di Daidans sull’isola di Landara, vide qualcosa che l’avrebbe lasciato profondamente colpito. Una serie di case dei nativi costruite in legno di fronte alla spiaggia, ciascuna della quale presentava un ingresso ricavato da un ponderoso tronco di cedro rosso, intagliato per rappresentare il volto distorto di una persona. Invitando gli abitanti ed eventuali ospiti a fare il proprio ingresso tra le fauci di simili creature o ponderose entità sovrannaturali. Perché sembrava del tutto impossibile, in quell’epoca appesantita dai pregiudizi, che “popoli selvaggi” potessero essere in grado di costruire opere ed architettoniche tanto complesse, senza aver ancora ricevuto nessun tipo di aiuto da parte dell’uomo bianco. Una situazione, d’altra parte, molto presto destinata a cambiare, all’apertura dei commerci con le Prime Nazioni o popoli indigenti dell’attuale territorio canadese, i quali avrebbero acquistato con notevole trasporto ogni attrezzo metallico per la cesellatura del legno, atto a sostituire quelli precedentemente posseduti e costituiti in pietra, osso e affilatissimi denti di castoro. Così che entro l’inizio del XIX secolo, l’antica arte della costruzione di pali totemici, eretti da queste genti con un’ampia varietà di scopi non soltanto, né primariamente di natura religiosa, fiorì più che mai in precedenza, portando alla creazione seriale di eccezionali meraviglie artistiche capaci di mostrare una vena creativa “Paragonabile a quella dei nostri Turner e Gaugin, Van Gogh, e Cézanne.” Benché il testo rilevante del 1950 dell’etnografo Marius Barbeau, intitolato per l’appunto Totem Poles, non mancasse di notare all’interno dello stesso capitolo come si trattasse di “Un’arte ormai legata ad un passato che è scomparso da tempo, mentre l’energia culturale delle antiche tribù sta scomparendo da questa e tutte le altre regioni del mondo.” Un’affermazione ironica, tutto sommato, se si considerano i fatti storici intercorsi tra i due momenti: le dure e repressive leggi, tra cui la più famosa resta quella contro i potlach (celebrazioni collettive spesso culminanti con l’erezione di un totem) del 1867, sottoscritte entusiasticamente da parte del Parlamento Canadese con la ferma intenzione di accelerare “l’integrazione” e generosa “conversione etica” delle genti native, così da farne membri produttivi e pienamente sottomessi ai crismi della cosiddetta società contemporanea. Una vera e propria aberrazione in tal senso, forse tra le malefatte peggiori commesse durante la colonizzazione dell’America settentrionale, che avrebbe portato all’eccesso surreale delle scuole aborigene residenziali, luoghi presso cui venivano introdotte e segregate dai loro cari le nuove generazioni dei cosiddetti indiani per imporgli un’educazione cristiana e l’assoluta proibizione di dare continuità alle proprie tradizioni ancestrali. Con i trascurabili effetti collaterali di subire occasionali molestie di natura pedofila e/o perire in massa a seguito d’epidemie di tifo e vaiolo importate dalla buona, vecchia Europa. Mentre di pari passo, nei terreni di caccia, cimiteri, luoghi sacri e villaggi dei loro genitori, qualcosa di altrettanto iniquo stava portando all’innegabile furto del più prezioso avere di queste genti: gli alti pali totemici ricavati da un singolo tronco di cedro nel corso degli ultimi due secoli, nell’idea dichiarata di preservare e proteggere la loro storia “inspiegabilmente” avviata all’auto-annientamento. Così che la gente nativa di quei luoghi aveva modo di vedere con i propri stessi occhi increduli la loro storia abbattuta a colpi d’ascia, e trasportata via senza troppe cerimonie lungo il corso dei fiumi fino alle imponenti città portuali dei propri aguzzini. Sotto ogni punto di vista, l’insulto finale…
È inutile sottolineare come all’epoca a nessuno fosse venuto in mente che una simile pratica potesse aumentare il carico del karma negativo entusiasticamente accumulato dall’uomo bianco. Anzi, l’idea generale era che si stessero aiutando questi popoli, mettendo al sicuro dei magnifici ed imponenti manufatti lignei che sarebbero andati totalmente in polvere nel giro di appena un paio di generazioni, secondo la prassi ereditata dai loro insigni predecessori. Fatto resta che a nessuno, tranne rare eccezioni, fosse venuto in mente di chiedere il permesso a coloro che li avevano costruiti, spesso agendo di nascosto mentre i membri delle rispettive tribù si trovavano in trasferta per lavorare nei campi o compiere battute di caccia. Come nel caso, tornato particolarmente attuale nel corso degli ultimi mesi, del palo memoriale di Ni’isjoohl della confederazione di tribù dei Nisga’a, destinato ad essere custodito ancora per qualche tempo presso il Museo Nazionale di Scozia ad Edimburgo, dove trovò la sua dimora nel 1929, dopo essere stato acquistato da un catalogo per la cifra non trascurabile di 400/600 dollari canadesi (l’equivalente di attuali 6.500/9.800). Ovvero uno di quei numerosi repertori fotografici, creati dallo stesso Marius Barbeau, finalizzati ad agevolare e velocizzare il commercio internazionale della storia stessa delle Premières nations. Una storia tristemente ripetuta in vari casi coévi e in grado di proseguire fino alla metà dello scorso secolo, quando una nuova presa di coscienza della verità storica pregressa, assieme alla salita al potere di un nuovo tipo di classe politica, avrebbe portato all’elaborazione di nuove leggi atte a implementare una qualche misura di compensazione. Con una serie di accordi per la concessione di diritti territoriali e l’investimento di fondi per la tutela e recupero delle antiche usanze, di cui l’ultimo in ordine di tempo è quello del 2000 proprio con gli odierni capi-tribù dei Nisga’a, capace di porre le basi, tra le altre cose, per una dispendiosa ma imprescindibile restituzione del palo di Ni’isjoohl. Un monumento, nello specifico, risalente alla metà del XIX secolo e raffigurante l’eredità dinastica ed i celebrati eroi di un’intera famiglia di notabili, i cui ultimi discendenti possiedono tutt’ora l’effettiva capacità di leggere come un libro. Per cui la constatazione e tardiva attribuzione del tesoro ai legittimi proprietari ha recentemente portato alla visita, lo scorso agosto, di una delegazione composta da sette rappresentanti di questo popolo, che si sono recati presso il museo d’Edimburgo al fine di rendere omaggio al palo totemico e nel contempo negoziare i termini effettivi e le competenze finanziarie necessarie al suo ritorno in patria. Operazione prevedibilmente complessa dal punto di vista logistico, per l’antichità e delicatezza dell’oggetto, nonché inevitabilmente rallentata dal tipo di iter burocratico imprescindibile a margine di un tale intento. Benché i rappresentanti tribali, sulla base di “leggi molto più antiche ed inviolabili” appaiano del tutto certi di una positiva risoluzione del conflitto, come già avvenuto almeno una volta in precedenza per il palo di G’psogolox degli Haisla e Henaksiala, restituito nel 2006 dopo una lunga e articolata battaglia dal Museo Etnografico di Stoccolma. Il primo caso d’iniziativa andata a buon fine per il ripristino di un manufatto tradizionale di queste dimensioni. Ma che forse non resterà l’unico, ancora per molto tempo…
Altre tribù, nel frattempo, tentano sentieri alternativi. Vedi il caso dei Nuxalk alle prese ormai da anni con il Museo Reale della Columbia Inglese per riprendere possesso di un palo totemico lì custodito fin dal tardo Ottocento. Un obiettivo perseguito dal capo tribale Snuxyaltwa anche tramite vie di natura prettamente legale, in base a legittime competenze ereditarie e nell’assenza della prova incontrovertibile che le autorità coloniali avessero in alcun modo concordato la rimozione del monumento. Un’approccio meno risolutivo di quanto si potrebbe essere indotti a pensare, mentre le tempistiche continuano ad allungarsi nella preparazione di una funzionale “via d’uscita” per il totem lungo i relativamente angusti ed ingombri corridoi dell’edificio. Paradossale, che siano proprio i più vicini possessori della refurtiva di un tempo ad esser maggiormente convinti che l’abitudine crei il diritto. Eppure, limpido e lucente all’orizzonte, sorge l’astro ben riconoscibile di un’alba di speranza.
Poiché gli errori di un tempo, non senza una certa comprensibile recalcitranza, sono ormai un fatto pienamente acclarato, costituendo il necessario punto di partenza per cominciare a percorrere il sentiero dell’abnegazione e un faticoso tentativo di riscossa. Mentre persino il nostro papa Francesco I, la scorsa estate, ha visitato nel suo viaggio apostolico le genti delle Prime Nazioni a Edmonton, in Alberta. Aprendo il dialogo per quanto concerne le ingiustizie che possono essere commesse con una vasta e variegata tipologia d’intenti. Inclusi quelli che proverbialmente lastricano una Via del tutto sotterranea e tristemente priva di alcun ritorno.