Una nazione unita ed omogenea, per cultura, sistemi di governo, religione e metodi di mantenimento dell’ordine civile: questo è la Cina, agli occhi dell’opinione pubblica contemporanea, sulla base di una generalizzazione ereditata dalle superficiali trattazioni socio-politiche del tardo Novecento. Il che non fu mai realmente corretto, come può esserlo per certi versi quando si tratta l’arcipelago nipponico ad Oriente, sebbene sia del tutto ragionevole individuare nei preconcetti dell’uomo della strada un qualche tipo di collegamento tra le due culture, che trasversalmente non ha luogo in alcun modo ad essere, fatta eccezione per determinati tratti legati all’interscambio d’idee filosofiche e beni d’uso e consumo comunitario. Soprattutto visto come, fatta eccezione per l’ancestrale battaglia contro gli Ainu del remoto settentrione, i Giapponesi non ebbero frequentemente a che vedere con la pletora di popoli ed imperi contrapposti, ciascuno armato ed animato dalle proprie reciproche ambizioni di conquista. Entità come quella la cui storia dinastica, dinamiche di potere e sistemi d’organizzazione sono andati perduti nel tempo, dei parlanti delle lingue Tochariane, una periferica derivazione del ceppo identitario Indo-Europeo, che attorno al termine del primo millennio a.C. avevano costituito un vero e proprio impero nella depressione di Turpan, corrispondente all’odierna “regione autonoma” uigura dello Xinjiang. Essenzialmente formato da una pletora di piccole città e villaggi, ciascuno situato in corrispondenza di un’oasi mantenuta sulle sabbie grazie ad un’effimera pozza d’acqua potabile, eppure tutti detentori di una spropositata ricchezza materiale, grazie alla loro collocazione lungo l’estendersi di una delle più importanti vie commerciali del Mondo Antico, destinata a diventare nota in seguito col nome di Via della Seta. Non c’è perciò nulla di stupefacente nel notare come questo particolare popolo non meno eterogeneo, riunito sotto la bandiera nazionale del regno di Jushi, avesse potuto costruire una propria vasta capitale, posizionata in mezzo all’opulenza e lusso sfolgorante di due corsi d’acqua ai margini della catena montuosa del Tian Shan. Ciò che colpisce, piuttosto, è la specifica ubicazione e l’aspetto di questa metropoli ormai lungamente disabitata, edificata sopra l’armoniosa forma di una mesa sopraelevata all’altezza di circa 30 metri, lunga 1760 e larga 300, circondata dal fossato naturale più invalicabile contro il quale un esercito nemico abbia dovuto pianificare un tentativo d’assedio. Un centro urbano, in altri termini, condizionato profondamente nella sua dislocazione ed organizzazione da uno spazio chiaramente definito e impervio a qualsivoglia tentativo d’espansione, in modo tale da incentivare un tipo di pianificazione urbanistica decisamente anacronistica per l’epoca, in cui ogni quartiere aveva una funzione attentamente definita, senza tuttavia poter ricorrere alla simmetria tipicamente utilizzata in questa tipologia d’insediamenti. Il tutto tramite l’applicazione di uno stile architettonico particolarmente distintivo, originariamente fondato sullo scavo in profondità nella terra friabile della formazione composta di loess, per poi passare all’utilizzo dell’adobo o mattone di terra, sapientemente compattato al fine d’erigere grandi templi, maestosi stupa e veri e propri condomini adibiti a spazi abitativi per le diverse classi sociali (militare, nobile, religiosa e civile). Verso l’ottenimento di un complesso dedalo di strade interconnesse, le cui fonti d’ombra avrebbero potuto superare relativamente indenni le generazioni d’incuria a venire, grazie alle caratteristiche climatiche di una regione dove cadono comunemente pochi centimetri di pioggia l’anno. Con buona pace degli amanti di fontane e giardini…
Raggiunto il proprio apice all’inizio del secondo secolo a. C, il regno di Jushi sarebbe stato quindi sottomesso e conquistato dalle genti nomadi degli Xiongnu, un destino toccato ad innumerevoli altri popoli stanziali delle steppe e deserti d’Asia, per poi venire conseguentemente coinvolto nel decennale conflitto di culture contro l’Impero degli Han. In questa guisa individuata come il fondamentale obiettivo strategico che era in grado di costituire, per la sua collocazione come ultimo punto di sosta e rifornimento prima delle terre selvagge della Mongolia meridionale ed il deserto del Gobi, l’imprendibile città di Jiaohe venne nuovamente circondata ed infine, con gran dispendio d’energie, catturata. Da quel momento e per circa otto secoli, essa non sarebbe più passata di mano, permettendo alla successiva dinastia cinese dell’epoca Tang di abbellirne ulteriormente i monumenti, costruendo molte delle strutture le cui rovine ancora costituiscono una sorta di frammentario e memorabile skyline. In questo lungo periodo di pace dunque la struttura estremamente razionale dell’insediamento venne ulteriormente migliorata, fino al punto di poter ospitare nei suoi circa 220.000 metri quadri ben 700 dimore, con 6.500 residenti ed 865 soldati suddivisi nei diversi quartieri, ciascuno dislocato lungo un punto definito della mesa sopraelevata. A partire dalla parte considerata come il nord (in realtà la foglia urbana ha una dislocazione obliqua rispetto ai punti cardinali) in cui sorgevano gli antichi luoghi di culto per lo più buddhisti, edificati sopra un dedalo di cripte sotterranee antecedenti alla venuta degli Han. Per poi proseguire lungo l’asse disegnato dalla via principale, alle cui due estremità si trovavano anticamente le uniche porte d’ingresso fortificate per salire dalle rive dei fiumi ormai lungamente prosciugati, fino al quartiere degli uffici governativi principali e subordinati, circondati dalle case della casta sociale più elevata, in qualche modo coinvolta nell’amministrazione dell’intero sistema. È soltanto proseguendo ulteriormente verso meridione che gli odierni visitatori, essendo qui situata forse la meta turistica più popolare dell’intera Xinjiang, potranno scorgere ed immaginare l’effettivo stile di vita di questo luogo, grazie alla conservazione più soddisfacente dell’antico quartiere residenziale, con edifici più compatti e meno ambiziosi nella propria estensione verticale, favorendone l’attraversamento indenne delle plurime generazioni d’incuria. Un ulteriore vantaggio, a tal fine, può essere individuato nell’assenza di veri e propri mattoni nella loro costruzione, avendo impedito alle popolazioni locali di saccheggiarle per poterli riutilizzare nei propri progetti di epoca successiva. Sarebbe corretto affermare, a tal proposito, che questa zona di Jiaohe sia stata effettivamente scolpita nella mesa stessa, abbassando il livello delle strade piuttosto che provvedendo ad erigere alte mura, una tecnica raramente osservabile in questa particolare regione dell’Asia Orientale.
La caduta e conseguente cambio d’amministrazione cittadina sarebbero giunti quindi attorno al nono secolo, con l’istituzione del Kaghanato Uiguro, un vasto impero di matrice turca e cultura per lo più islamica, che si rivelò capace di mantenere operativa l’antica capitale. Al punto che secondo il resoconto di alcuni viaggiatori medievali, l’insediamento si dimostrò capace di raggiungere i 7.000 abitanti, un numero tanto notevole considerata la sua estensione da far sospettare un ampliamento anche al di là della formazione geologica d’appoggio. Che restò tuttavia saldamente inaccessibile almeno fino al XIII secolo, quando i rifiuto da parte degli Uiguri di pagare il tributo richiesto dai Mongoli di Gengis Khan portò ad una feroce e spietata invasione delle loro terre, culminante con la devastazione e successivo abbandono dell’antichissima città. Fino allo stato in cui si trova ancora oggi.
La problematica amministrazione delle sue vastissime regioni autonome ha più volte posto la Cina sotto l’occhio analitico di organizzazioni create per interessarsi dei diritti umani. Una questione che di certo ha trovato a più riprese validi argomenti soprattutto in Tibet e nell’area dello Xinjiang. Ciò detto resta indubbio come l’assimilazione all’interno di un sistema politico preponderante abbia permesso a luoghi come questo di essere eretti alla qualifica di simboli, ricevendo l’opportuna cura per essere preservati e mantenuti a beneficio delle future generazioni. Come per il caso del progetto multi-generazionale per il rinforzo e restauro d’interi quartieri della città sopraelevata sopra la valle desertificata di Turpan, iniziata negli anni ’90 con il patrocinio dell’UNESCO e che continua ancora oggi a dare i suoi frutti, come evidenziato la scorsa estate a seguito di una visita di stato del presidente Xi Jinping. In quella che potrebbe essere individuata dagli ottimisti come una rara, quanto potenzialmente utile presa di coscienza da parte del governo centrale di una delle più antiche popolazioni entrate lungo il corso dei secoli a far parte dell’ideale unicum della pervasiva ed influente identità cinese. Con la forza delle armi e non solo, come tanto spesso siamo inclini a dimenticare nell’odierna visione semplificata degli scontri tra civiltà dai trascorsi più che millenari. Il che non basta certo a giustificare determinate azioni o scelte in ambito amministrativo. Ma un’opinione veramente utile, come spesso capita, può venire solamente dallo studio approfondito della storia. A partire dalle pietre stolide e dimenticate, che non possono più parlare per l’avvenuta fuga o deportazione dei loro abitanti. Ma se lo facessero…