Voltando l’angolo che porta dall’ingresso della chiesa alla vasta e incommensurabile scenografia della sua navata, il visitatore potrà scorgere qualcosa d’inaspettato. Tra gli altri pilastri sormontati da archi a sesto acuto, in corrispondenza dei fregi ornati di pareti che si perdono nella penombra dei recessi più svettanti, come un milione di farfalle colorate, che paiono risplendere alimentate dal sacro fuoco di un’imperturbabile rivelazione. Soltanto voltandosi, mentre tenta di dare un senso a tale straordinaria visione, egli potrà scorgerne l’origine: la forma immediatamente riconoscibile del tipico finestrone gotico, “riempito” da qualcosa che può essere soltanto descritto come l’immagine di una schermata informatica successivamente a un blocco del tuo PC. Una cascata di pixel variopinti, resi limpidi e splendenti dall’astro diurno che si staglia dietro di loro, almeno in apparenza totalmente privi di alcun tipo di significato. L’opera di un grande artista, forse il maggior pittore vivente, la cui esperienza di vita non potrà più ripetersi, ma anche una particolare situazione di contesto, che per quanto ci è dato auspicare, non DOVRÀ più avere luogo a verificarsi. Semplicemente perché scaturisce dagli abissi più profondi e imperscrutabili della disperazione, pur avendo portato ad alcuni, inaspettati e singolari risvolti positivi.
Tra tutti e tutte coloro che, per fondamentale beneficio dell’umanità, si sforzarono di dare un contributo positivo a quel disastro senza precedenti che fu la seconda guerra mondiale, sussiste una particolare categoria che non viene spesso menzionata nei libri di storia. Sto parlando dei bauhütte o “muratori” secondo l’antica tradizione mitteleuropea, coloro che vivendo all’interno di anguste e instabili capanne sopra il tetto delle cattedrali tedesche, sfidarono con cadenza quasi quotidiana la caduta delle bombe alleate. Nel disperato, ma riuscito tentativo di mantenere intatte alcune delle opere d’arte tangibili più importanti mai lasciate alla posterità indivisa. Vedi un edificio come l’impressionante Kölner Dom (Duomo di Colonia) o ufficialmente Hohe Domkirche Sankt Petrus (La Chiesa Cattedrale di San Pietro) ovverosia semplicemente la chiesa gotica più imponente d’Europa e del mondo. Particolarmente celebre, in taluni circoli, per quella foto del 1944 in cui si erge maestosa ed indefessa in mezzo alle macerie di un’intera città di 700.000 persone, di cui ne restavano a quel punto, secondo le stime più ottimistiche, non più di 50.000. Ivi inclusi i suddetti scalpellini, che persino mentre risuonavano le sirene di allarme per i raid aerei restarono ai loro “posti di combattimento”, estinguendo le fiamme sul nascere e mantenendo l’antico tetto sgombro dai detriti che rischiavano di appesantirlo. Giungendo addirittura, in almeno un caso, a rinforzare un pilastro che era stato danneggiato, grazie all’aiuto di una parte della brava gente di Köln. Quando tuttavia il cappellano cattolico Philip Hannan, giungendo presso la città assieme al resto dell’82° Divisione Aviotrasportata, riuscì a rintracciare l’arcivescovo tedesco Josef Frings, per ottenere un mandato ecclesiastico a protezione e salvaguardia dell’importante edificio, esso appariva già danneggiato in molti aspetti. Il più evidente tra i quali, risultava essere la distruzione di ogni singola vetrata incorporata nelle sue alte mura. Inclusa quella forse più notevole, risalente all’era di completamento dopo circa sei secoli del maestoso progetto architettonico ed originariamente databile al 1863, che sul lato sud commemorava, con un elaborato intarsio di vetri colorati della vastità di 106 metri quadri, l’immagine e l’opera degli antichi Re cristiani dell’Era Medievale a seguire. Un vuoto che avrebbe necessitato, senz’ombra di dubbio, un’attenta pianificazione ed appropriato ripristino alle condizioni originali. Ma poiché una finestra di queste dimensioni costituisce un importante elemento strutturale, ancor prima che decorativo, non sarebbe del tutto fuori luogo affermare che fu necessario fare le cose in fretta, e sommariamente…
Chiunque abbia visitato la cattedrale di Colonia prima dell’anno 2007, ed a partire da quel fatidico 1948, avrà quindi avuto modo di notare in corrispondenza della sua alta parete sud la semplice opera in vetro di Wilhelm Teuwen, un finestrone lievemente decorato ma per lo più monocromatica ed in effetti, trasparente. La pura e semplice dimostrazione di come non sempre le soluzioni semplici possano essere risolutive, vista la maniera in cui in particolari ore del giorno, il bagliore della luce si dimostrasse perfettamente capace di oltrepassarla, accecando i fedeli facenti parte della congregazione, il loro sacerdote ed ogni possibile visitatore dell’edificio. Un effetto altamente indesiderabile, proprio perché andava a ledere la fondamentale atmosfera di raccoglimento e preghiera della Kölner Dom. Fu così che nell’anno 2003, dovendo stanziare i fondi per l’impegnativo restauro del gigantesco elemento, il capitolo del canonici di Colonia scelse piuttosto d’istituire un concorso per i principali artisti interessati a dare il proprio contributo: la vetrata sarebbe stata dunque ricostruita, più magnifica, inconfondibile e pregna di quanto fosse stata da oltre mezzo secolo di tempo. In un primo momento, il soggetto favorito sembrò essere quello proposto dai pittori Edith Stein e Maximilian Kolbe, finalizzato a commemorare l’Olocausto ed i martiri tedeschi del ‘900. Almeno finché sulla scrivania dei committenti non giunse il progetto del loro concittadino Gerhard Richter, un diretto adattamento del suo celebre quadro del 1976, 4096 Farben (4096 colori). Eclettico, geniale artista visuale, le cui quotazioni nelle case d’aste rivaleggiano ormai da decadi quelle di una figura monumentale come Picasso, costui proponeva dunque un qualcosa di assolutamente privo di precedenti: non più figure umane o scene della Bibbia secondo la tradizione dei luoghi sacri d’Occidente, bensì una composizione astratta, priva di alcun significante o scopo apparente, escluso quello d’instillare indirettamente, anche nei fruitori più materialisti, l’inquieto sospetto dell’esistenza di un’armonia ed Intelligenza superiore.
Grande avanguardista delle arti visuali, Gerhard Richter aveva iniziato la sua opera nel territorio conflittuale della Germania dell’Est, dipingendo alcuni murales di soggetto socialista, prima di scappare verso l’Ovest due mesi prima dell’erezione del muro di Berlino nel 1961. Fu nel periodo successivo, mentre le sue opere precedenti venivano distrutte per ragioni politiche, che accedette agli onori delle cronache della storia dell’arte, grazie alla sua originale fusione di fotografia e pittura, espressa in una serie di opere basate su immagini spostate fuori dal contesto e “rivelate” attraverso strati sovrapposti di colore, in composizioni precedentemente mai viste prima, sconfinando spesso nell’astrattismo. Fu a partire dal 1973, con l’evolversi continuo della sua visione, che iniziò a lavorare su una forma espressiva di tipo completamente diverso, quella delle tavole di colori casuali posizionati nella forma di rettangoli in una matrice. A partire da “256 Farben ” e poi soltanto “10 Farben “, fino al magnum opus del 2007, rivelato al pubblico nello stesso anno della finestra della Cattedrale di Colonia, “4900 Farben” 1 e 2, una serie di 49 armonie cromatiche prodotte in due versioni successive, ciascuna rappresentata in una tavola rettangolare frutto della generazione numerica casuale. Un approccio, quest’ultimo, giudicato insufficiente nel caso della finestra della Kölner Dom, per la quale Richter mise mano in più punti della composizione per scongiurare l’emersione di un pattern o qualche tipo di significato apparente, oltre a rendere diametralmente simmetriche le colonne 1 e 3, 2 e 5, 4 e 6.
Raggiunto quindi il giorno dell’unveiling del suo lavoro costato 370.000 euro, benché non avesse chiesto alcun tipo d’onorario ma data la complessità tecnica degli esattamente 11.263 pannelli quadrati uniti con una speciale tecnica a base di silicone, come potrete facilmente immaginare le critiche non tardarono ad arrivare. La più accesa di tutte proprio quella del cardinale tedesco Joachim Meisner, non coinvolto nel capitolo della cattedrale, che tuttavia non poté esimersi dal definire la nuova finestra come “Fuori luogo in una chiesa cristiana, sembrando più adatta a una moschea o altra casa di preghiera.” Una visione delle cose innegabilmente superficiale, che si basava unicamente sul divieto in base alla fede islamica di rappresentare la figura umana. Ed aggiungerei non particolarmente condivisa dal resto del mondo cattolico, vista l’immediata richiesta da parte della cattedrale di Reims di realizzare qualcosa di simile anche lì, che Richter scelse di rifiutare. Per poi dedicarsi anima e corpo, invece, a partire dal 2020 alle finestre dell’abbazia di Tholey, monastero benedettino nel distretto di Sankt Wendel. In quella che sarà, in base alle sue dichiarazioni, l’ultima opera di grandi proporzioni della sua leggendaria carriera d’artista, una scelta direi comprensibile considerando il venerando traguardo raggiunto dei 90 anni d’età. Ben pochi altri possono affermare, nel suo campo professionale, di aver accumulato in vita un patrimonio superiore ai 700 milioni di dollari, grazie esclusivamente alla forza espressiva dei suoi pennelli. E soltanto occasionalmente, “qualche” vetro colorato che si staglia a ridosso dell’azzurro cielo!