Non è raro nei paesi dell’Estremo Oriente che le questioni religiose e di stato si trovino in un certo grado sovrapposte l’una all’altra, in una visione sincretica del mondo che trovò forse una delle sue massime espressioni proprio nell’antico regno dei territori del Siam. Dove fin da tempo immemore, nel corso delle confederazioni tribali antecedenti al primo periodo degli Khmer, il potere dei re e governanti era sancito da un qualche tipo di diritto divino, successivamente sovrascritto dagli schemi spirituali ed organizzativi del clero. Una situazione destinata solamente a rafforzarsi per gli interi periodi di Sukhotai ed Ayutthaya, corrispondenti al nostro Medioevo e primo Rinascimento, senza mai entrare in conflitto con l’affermarsi graduale del razionalismo o un qualche tipo d’istituzione civile diametralmente contrapposta. Fino alla divisione e successiva ricomposizione del paese, ad opera del potente re Taksin nel 1767, che ancora una volta agì con il beneplacito, e successivamente s’impegnò per proteggere i discepoli del Buddhismo Theravada (Scuola degli Anziani). Ma l’effettivo culmine di tale dualismo si raggiunse forse soltanto successivamente alla deposizione cruenta di costui nel 1782, con la conseguente ascesa del generale Thongduang che avrebbe fondato una nuova dinastia, passando alla storia con il nome di Rama I. L’uomo che costruendo una nuova capitale sulla riva est del fiume Chao Praya, affinché fosse meglio difendibile dal popolo nemico della Birmania, decretò per ragioni di sicurezza che in esso fosse presente un tempio dedicato esclusivamente alla sua famiglia, cinto dalle mura e distinto da quello di qualsiasi ordine monastico preesistente. Di cui lui stesso sarebbe stato, nei lunghi anni a venire, il sommo sacerdote e ministro delle attività di celebrazione. Quindi, affinché fosse chiaro per tutti che esso doveva costituire il singolo luogo più sacro dell’intero paese, vi trasportò all’interno l’insostituibile palladium, o reliquia protettiva di tutta quella che sarebbe diventata un giorno la Thailandia, un oggetto che lui stesso aveva conquistato per la patria nel 1779, a seguito delle proprie campagne alla testa dell’esercito in Laos: la statua del Buddha di Smeraldo, importantissima testimonianza del significato dato alle immagini in quella che potremmo definire come una delle principali religioni al mondo.
Essenzialmente, nient’altro che una raffigurazione scolpita nella pietra semi-preziosa (dovrebbe trattarsi di un diaspro con impurità d’oro) dell’Illuminato seduto in posa meditativa, dell’altezza di 66 cm e non particolarmente dissimile da tante altre presenti nel contesto geografico dell’Estremo Oriente. Il cui significato più profondo deriva, in massima parte, dalla lunga e articolata storia che ebbe modo di connotarla. La statua nascerebbe infatti, secondo una serie di testi storiografici tra cui il Ratanabimbavamsa, il Jinakalamali e l’Amarakatabuddharupanidana, nel 43 a.C. presso la città di Pataliputra in India, per mano del saggio Nagasena con l’aiuto divino degli Dei induisti Vishnu ed Indra, al fine di celebrare il quinto secolo dall’ascesa di Buddha al Nirvana. Prima di cambiare mano più volte attraverso gli alterni casi della Storia, aumentando progressivamente il valore percepito della sua singolare, ed insostituibile persistenza…
La prima testimonianza tangibile dell’esistenza della reliquia si ha quindi nel 457 d.C., quando le Cronache Reali della Cambogia ne menzionano lo spostamento via nave da Pataliputra, dov’era rimasta per oltre tre secoli, al fine di metterlo in salvo dal caos di una terribile guerra civile. Tale trasferimento, ordinato dai dinasti dell’isola dello Sri Lanka, sarebbe tuttavia andata incontro ad un significativo imprevisto, con il naufragio e risultante approdo del Buddha di Smeraldo (così chiamato per il suo colore, piuttosto che composizione) presso la costa cambogiana di Russey Keo. Fu quindi in tale luogo, successivamente al declino del regno autoctono degli Khmer anche a causa di un’epidemia di peste, che un corpo di spedizione del regno siamese di Ayutthaya trovò e s’impossessò della preziosa statuetta, riportandola dapprima nel tempio di Kamphaeng Phet, quindi la capitale Chiang Rai successivamente al 1432. Una soluzione destinata a durare non più di un paio d’anni, visto come del Buddha si sarebbero perse ben presto le tracce, forse per un furto, vedendolo ricomparire a sorpresa nell’adiacente regno della penisola thailandese di Lan Na, camuffato da oggetto più comune grazie ad uno strato del tutto opaco di stucco bianco. Collegato ad una singolare leggenda datata al 1434, in base alla quale l’abate del tempio Wat Pa Yia (anche detto “Monastero della Foresta di Bambù”) decise di custodire per qualche tempo la sacra immagine all’interno delle sue stanze, dopo che il sancta sanctorum del suo chedi dall’alto pinnacolo era stato colpito da un fulmine durante una tempesta. Periodo durante il quale, contemplandola durante la meditazione, avrebbe notato la maniera in cui lo stucco coprente aveva iniziato a staccarsi dal naso di Buddha, così che affrettandosi a rimuoverlo completamente egli comprese immediatamente la natura problematica della sua situazione. Affrettandosi ad avvisare il re Sam Fang Kaen di Lan Na, l’abate diede perciò disposizioni che il Buddha fosse riportato immediatamente a Chiang Mai, se non che l’elefante incaricato di trasportarlo, in tre diverse occasioni, continuò testardamente a dirigersi verso la città di Lampang. Interpretando tale comportamento come un presagio divino, venne perciò decretato che lì fosse costruito un tempio, dove rimase per ben 32 anni. E soltanto nel 1468, finalmente, re Tilokaraj della dinastia dei Mangrai fece in modo di riportarlo nell’originale capitale di Ayutthaya, Chiang Mai.
Attraverso il succedersi delle rivoluzioni e guerre combattute per tutto il XV e XVI secolo nell’attuale Thailandia, la statua sarebbe quindi stata trasferita ulteriori due volte, trovando asilo prima presso Luang Praban e successivamente a Vientiane, per volere del re del Laos, Setthathirath. E fu qui, durante una conquista di territorio alla testa delle armate del Siam nel 1789, che il generale destinato a diventare Rama I si sarebbe trovato per la prima volta al suo cospetto, decidendo di farne un simbolo imprescindibile del suo crescente potere.
All’istituzione della sua nuova corte dopo la decapitazione (o secondo alcuni, bastonatura a morte dopo essere stato chiuso in un sacco) dell’appena quarantottenne, ma a quanto pare già senile re Taksin, il fondatore del riforgiato regno di Rattanakosin non impiegò molto a istituire una precisa serie di rituali dedicati al culto del Buddha di Smeraldo, che con relativamente pochi cambiamenti sopravvivono tutt’ora. Custodito nel Phra Ubosot o sala d’ordinazione del tempio reale, il Wat Phra Kaew nel Gran Palazzo di quella che sarebbe in seguito diventata Bangkok, la statua fu posta su di un alto piedistallo dorato, ove sarebbero stati compiuti tutti i principali eventi di stato capaci di coinvolgere la famiglia reale, tra cui incoronazioni, riti religiosi e l’investitura del patriarca supremo. In particolare fu ritenuto da lui necessario, al susseguirsi delle stagioni, che il principale dinasta o un membro anziano della sua famiglia presenziasse all’opportuna preghiera connessa ad un pratica particolarmente insolita ed affascinante: il cambio delle vesti del Buddha. Inizialmente di sole due versioni, fatte forgiare da Rama I stesso con oro e gioielli, consistenti di corone e soprabiti diversi per il periodo caldo e quello piovoso in questa terra dalla situazione climatica ragionevolmente tropicale. E soltanto successivamente, per decreto del suo successo Rama III, un ulteriore abito fornito di scialle che copre le spalle, da utilizzare nei mesi più freddi del cosiddetto inverno.
Situato nel punto più sacro di un complesso dall’imponente significato culturale e nazionale, nonché principale sito turistico dell’intera Bangkok, il Buddha di Smeraldo mantiene ancora oggi molto del suo significato ed antichi misteri. Trovandosi sinceramente utilizzato, con puntuale regolarità, nei riti condotti oggi dall’attuale sovrano Vajiralongkorn alias Rama X, salito sul trono nel 2019 all’età di 64 anni. Sebbene in epoca moderna alcuni cambiamenti siano stati effettuati nel copione dei gesti, con attendenti clericali che si occupano di pulire e vestire la preziosa statua, mentre il monarca si dedica alla preghiera nelle immediate vicinanze. Una ragionevole semplificazione, forse implementata nel XIX secolo da Rama IV durante lo stesso periodo in cui si smise di portare in processione il Buddha per le strade di Bangkok, avendo preso coscienza di come “Le malattie sono causate dai germi, non gli spiriti malvagi”. Dimostrando, ancora una volta, come l’unione di razionalismo e venerazione, sacro e profano, possa essere tutt’altro che conflittuale nello schema di valori professato dai cultori del principale culto religioso dedicato alla realizzazione dell’individuo. E poco importa, se il profilo aviario del Garuda, uccello sacro induista, campeggia ripetuto ed aureo sulle mura esterne del Wat Phra Kaew, a simboleggiare l’incontrastato potere della dinastia Chakri; quando semplicità e purezza dello spirito possono essere subordinate al nostro dovere di mortali, soprattutto se investiti di un ruolo istituzionale come quello di sovrano di una nazione. Che si perpetra soprattutto grazie alla purezza degli intenti. Se non quella dei gesti osservabili e uno stile di vita dedicato, in modo meramente pubblico, alla sobrietà.