Fin da quando l’uomo ha costruito assembramenti di edifici, nell’ordinata configurazione di un agglomerato cittadino, loro sono giunti a valutare l’efficienza del suo lavoro. Come augusti messaggeri, di un’entità o ambasceria ragionevolmente remota, planando sulle ali della congruità ed adattamento. Ancora oggi, nei momenti di pausa e introspezione, ne riconosciamo la costante presenza. Nelle piazze e sopra gli alberi, sui cornicioni dei palazzi. Tutto attorno alle panchine in mezzo al parco. Chi avrebbe mai pensato, dall’origine del mondo moderno, di poter abbandonare a loro stessi gli “amichevoli” piccioni. D’altra parte sono in molti, figurativamente seppelliti da quel guano che imbratta i muri ed i veicoli , ad odiare il più comune ed ordinario tra tutti gli uccelli, in quel colore grigio che quasi si mimetizza sul copri-auto che ci ha implacabilmente costretto ad acquistare. Ma quest’ultimo costituisce, a dire il vero, uno sviluppo per lo più recente. Mentre quando gli strumenti per spostarsi da una zona all’altra dell’agglomerato avevano gli zoccoli, e la forma di un cavallo e/o cammello a seconda della zona geografica, il piccione rappresentava una risorsa al pari di tante altre. Utile come fonte di cibo ed assolutamente necessario, con lo scopo di fornire il proprio contributo ancor più valido alla concimazione dei terreni poco fertili per definizione. Così giusto mentre nell’Europa medievale, il possesso di una colombaia era diventato un simbolo di status e prestigio nonché letterale dispensa ad uso dei feudatari al di sopra di un certo rango nei mesi invernali, il Vicino Oriente aveva iniziato ad adottare soluzioni architettoniche concettualmente simili a vantaggio di una parte di popolazione significativamente più ampia. Immaginate voi del resto le difficoltà affrontate da civiltà con forti accezioni agricole, come quelle Egiziana, Araba, Persiana e Turca, alle costanti prese con il clima arido di una buona parte delle rispettive nazioni. Dove lo spazio da coltivare certamente non sarebbe mancato, risultando ancor più importante vista l’avversione storica di queste popolazioni alla consumazione dei piccioni considerati sacri in quanto simbolo del Profeta, se non fosse stato per l’assenza di un sostrato fertile fornito dall’accumulo di nitrati delle trascorse generazioni vegetali. Di certo in tali circostanze, poter disporre delle sopracitate e notoriamente vantaggiose deiezioni dei volatili poteva costituire un’importante via d’accesso a buoni risultati nei raccolti a venire, previa laboriosa raccolta ad esempio dei depositi contenuti all’interno delle caverne. Ma il pipistrello, per sua implicita natura, difficilmente tende a trascorrere le sue giornate di riposo in località agevolmente raggiungibili da parte della gente di superficie, così che da quelle parti venne l’idea a molti di costruire un nuovo tipo di residenza sotto la luce dell’astro solare, perfettamente calibrata a vantaggio delle nostre antiche e più gestibili conoscenze pennute. Il primo a parlarne nel contesto del Levante, sarebbe stato il grande storico e viaggiatore marocchino Ibn Battuta, che passando nel XIV secolo sulle strade tra il villaggio di Filan e la vastissima città persiana di Isfahan, che secondo un detto dell’epoca ospitava circa “la metà del mondo conosciuto” riportò nei suoi diari la presenza di molte torri dei piccioni, tra splendidi giardini, laghetti artificiali e fattorie, senza spendere ulteriori parole al fine di descriverle come fatto nel caso di capitoli maggiormente inusuali del suo racconto. Non è del tutto irragionevole, tuttavia, pensare che l’attestazione di simili edifici nel contesto preislamico potesse essere ancor più antica…
Sopra: torri dei piccioni abbandonate poco fuori Riyadh, in Arabia Saudita. Questo particolare complesso, molto famoso tra i locali per la sua posizione strategica lungo una via di scorrimento, ha purtroppo attirato negli anni l’attenzione indesiderabile dei graffitari.
Le colombaie in base alla concezione diffusa nell’intero spazio geografico del mondo musulmano prevedevano dunque alcuni aspetti tecnologici di riferimento. Il primo dei quali, largamente attestato già negli arcaici esempi citati di Ibn Battuta, era costituito dalla costruzione della struttura interna ed esterna con doppie pareti di mattoni di adobe, sostanzialmente argilla, sabbia e limo compattati a mano e uniti con la calce, perforate ad intervalli regolari da travi di legno stabilizzanti, tra le quali campeggiava un’ampia serie di buchi attentamente misurati e in configurazione geometricamente regolare. Di forma per lo più cilindrica, con variabili livelli di rastrematura, questi edifici spesso striati esternamente con fasce d’intonaco rosso al fine di essere maggiormente riconoscibili (anche per gli uccelli) avevano generalmente un tetto in paglia, per proteggere i loro occupanti dalle precipitazioni atmosferiche favorendo nel contempo un certo grado di ricircolo dell’aria nei periodi estivi. Ogni aspetto delle torri, per quanto possiamo desumere, era stato concepito al fine di favorire e proteggere lo stile di vita dei loro abitanti che potevano essere fino a 5.000, con punte di 25.000 uccelli nel caso degli esempi più grandi. A partire dalle suddette feritoie, di una grandezza tale da permettere l’ingresso del piccione ma nessun uccello più grande, come falchi o altri rapaci che avrebbero potuto costituire un pericolo per i volatili in corso d’allevamento. Le pareti interne, dal canto loro, presentavano immancabilmente un’ampia serie di nicchie in configurazione a scacchiera, perfettamente calibrate al fine di costituire un punto di appoggio riparato per il nido di un singolo nucleo familiare pennuto. Queste letterali fabbriche di guano fertilizzante, che come nei contesti della nostra Europa potevano avere diversi livelli di eleganza e prestigio estetico in base alla ricchezza dei loro committenti, venivano frequentemente realizzati negli spiazzi o in periferia, presumibilmente per il loro odore non propriamente gradevole, benché soprattutto ad Isfahan fosse frequente l’integrazione nella parete esterna delle cinte murarie, finendo per far assomigliare le tenute di famiglie facoltose a dei piccoli castelli con torri di vedetta perimetrali. Una particolare attenzione veniva riservata alla protezione delle strutture mediante l’impiego d’ingegnosi espedienti da quello che costituiva il più antico e noto pericolo per gli uccelli: la figura strisciante dei serpenti. Al fine di scoraggiare i quali, molte torri dei piccioni venivano costruite prive di porte d’accesso al di sotto del primo piano che poteva essere raggiunto mediante l’impiego di scale a pioli, mentre l’intero esterno del piano terra veniva connotato da un rivestimento edile sdrucciolevole e non permeabile, molto più difficile da scalare rispetto alle normali pareti in mattone d’adobe. Nei casi più sofisticati, gli utilizzatori delle colombaie erano andati persino oltre costruendo delle vere e proprie trappole integrate con l’edificio, consistenti di nicchie facilmente accessibili con all’interno ciotole di latte avvelenate con la calce, o stretti pertugi forniti di attraenti riserve di yogurt, alimento notoriamente molto amato dai serpenti. I quali entrando all’interno ed iniziando a nutrirsi senza ritegno avrebbero visto aumentare rapidamente il diametro del proprio corpo, finendo per restare irrimediabilmente incastrati. A mali estremi, come si dice…
La protezione delle torri dai serpenti era dunque ben più che un’accorgimento a lungo termine per favorire la produzione di una maggior quantità di guano, bensì l’essenziale ausilio alla loro stessa durevolezza nel tempo. Visto come sia stato determinato, nel caso di alcuni esempi d’edifici sottoposti a studi maggiormente approfonditi, la presenza di crepe e danneggiamenti profondi, probabilmente causati dalla vibrazione all’unisono di migliaia di ali, determinatasi nel momento di panico collettivo vissuto all’ingresso di un ospite indesiderato.
Per quanto concerne lo stato di conservazione di questo importante patrimonio architettonico, così rappresentativo dei suoi paesi di riferimento, vi basti sapere che le condizioni variano molto di caso in caso. Trattandosi effettivamente di una mera produzione popolare, priva di connotazioni artistico-religiose, il campo delle piccionaie ha visto un progressivo degrado nel corso delle ultime generazioni. A partire dal caso dei celebri esempi di Gurt, vicino Isfahan, da tempo proposti come beni culturali meritevoli di un significativo progetto di restauro, ma tutt’ora in attesa del via libera da parte del governo iraniano. Quasi come se il periodo storico e le instabilità culturali a cui sta andando incontro questo intero paese nel corso delle attuali decadi, in aggiunta al calo d’importanza del guano come strumento per l’introduzione dei fertilizzanti moderni, avessero in qualche modo spostato l’asse dell’attenzione dal turismo alla risoluzione di questioni maggiormente pressanti, in attesa del ritorno di tempi migliori. Quando gli alati messaggeri caleranno nuovamente dalle loro scintillanti dimore celesti, per donarci le copiose meraviglie frutto ultimo dei loro leggiadri e antichi processi di digestione. Lo strumento sostenibile, diversamente da tanti altri, di uno dei più antichi ed essenziali tipi di produzione. La trasformazione di aria, sole ed acqua in vegetali commestibili dalle creature onnivore di questa Terra. Inclusi, s’intende, noi stessi.