Il reverendo Samuel Peters si svegliò nel cuore della notte all’improvviso, percependo nell’aria l’ineffabile sensazione del cambiamento. Le finestre socchiuse, nelle profondità tenebrose di quel periodo estivo e rovente del Connecticut centrale, lasciavano entrare una brezza lieve accompagnata a un suono distante. Come… Un sibilo, un sussurro! La voce senza timbro delle fate, pensò lui nel dormiveglia, avvertendo la necessità di assegnargli un qualche tipo d’appellativo pregno di un latente senso di poesia. Mentre già la sua coscienza scivolava nuovamente nella quiete del sonno dei giusti, le voci al piano terra lo riportarono forzatamente nel regno della veglia: “Credi che…” “Possibile che siano…” “Oh, no! Dobbiamo fare qualcosa!” Erano Jack, il suo servo personale assieme a Sinda, la moglie, che immediatamente aggiunse per buona coscienza: “Sssh, sveglierai il padrone!” Troppo tardi, penso lui. Ma ogni proposito di far presente la sacralità delle ore successive al tramonto, dopo il sopraggiungere dell’alba distante, venne meno alla realizzazione di… Quanto stava per accadere. Il suono di fondo, quello strano strumento musicale d’accompagnamento, stava lentamente e inesorabilmente salendo d’intensità. Mentre la melodia si arricchiva di grida e strepiti, terribili lamenti. Il suono dei tamburi e voci indistinte. Lo sguardo del reverendo si rivolse tutto attorno nella stanza da letto per fissarsi, infine, sulla statuetta di George Washington che gli era stata regalata, il Natale scorso, dal suo amico ed avvocato, il colonnello Eliphalet Dyer. Qualche settimana prima che quest’ultimo, spinto dalle sue inclinazioni patriottiche di vecchia data, arringasse il pubblico nella sala comune del municipio, riuscendo a formare un piccolo reggimento di milizia con cui recarsi a combattere in primavera i cosiddetti “indiani”. Termine ad ombrello che in quel 1754 tendeva a riferirsi, senza distinzioni degne di nota, a tutte quelle tribù dei nativi in territorio nordamericano (Canada incluso) che avevano deciso di allearsi coi francesi all’inizio della guerra coloniale dei sette anni. Ritrovando le antiche inclinazioni, o almeno così si diceva, al massacro indiscriminato dei civili, la raccolta dei loro scalpi e la riconquista degli antichi territori perduti. “Dio mio, dammi la forza…” Pronunciò tra se e se il predicatore, mentre senza ulteriori indugi si alzava rapido dal letto, impugnando il pregevole moschetto che tutti gli abitanti di Willimantic avevano ricevuto dal governatore al completamento di un breve servizio di leva “…Di difendere il mio gregge dalla violenza.” Ora stava scendendo le scale e mentre attraversava il salone principale, vide Jack con un bastone di legno lungo almeno quattro spanne, mentre la consorte si copriva la bocca con le mani già evidentemente preparata al peggio. Ora Samuel aprì la porta principale, comprendendo all’improvviso la gravità della situazione. Oltre alle voci unite all’unisono in un terribile peana, si udiva infatti il suono dei tamburi, come durante l’esibizione collettiva dei selvaggi nota convenzionalmente con il termine di pow-wow. Inoltre si udivano dei nomi, chiamati dalle voci querule nel vento: “Wight, Hilderken, Dier, Tete. Dier, dier, dier!” Ma quel che era peggio, è che qualcuno aveva già iniziato a sparare, probabilmente alla cieca, all’indirizzo del dolce declivio antistante alla chiesa…
Chi accede oggi alla vecchia città industriale di Windham, alias zona censita di Willimantic lungo il corso dell’omonimo fiume, può farlo attraverso uno di due ponti distinti. Il primo di metallo risalente al 1906, costruito a partire da Main Street con lo scopo originario di permettere ai numerosi operai degli opifici di recarsi facilmente al lavoro, producendo quelle stoffe che avevano permesso a un simile centro abitato del New England di acquisire il soprannome prestigioso di “Thread City” – Città del filo. Ed il secondo moderno ed in cemento, implementato per sostituire l’ancor più vecchio arco di pietra che dal 1857 aveva attraversato, in sol balzo, il fiume, la palude e la ferrovia che condividevano lo stesso nome. Ciò che colpisce ancor maggiormente del panorama in questi tempi moderni, tuttavia, è la presenza lungo la suddetta carreggiata di una serie di elementi decorativi, con la forma di rocchetti simili a colonne doriche sormontati da quattro imponenti figure. La raffigurazione statuaria stilizzata, con tanto di colore verde ed occhi del colore del bronzo, di altrettante esponenti della specie Lithobates catesbeianus, più comunemente detta rana toro nordamericana. Creatura che ricorre, d’altra parte, nelle insegne commerciali locali, come sigillo dei documenti del comune, raffigurata in effige sui muri degli edifici e in guisa di più piccole statue decorate dagli stessi abitanti in modo variopinto, nel corso di una storica parata ed evento commemorativo di un paio di decadi a questa parte. Sul modello di queste stesse sculture opera di Leo Jensen, artista del vicino centro abitato di Ivorytown. Non è d’altronde insolito, in questa particolare zona degli Stati Uniti, che le comunità scelgano un nome derivante dai propri trascorsi trionfi nell’industria ed il commercio, piuttosto che un singolo evento collegato alla loro originaria fondazione. Benché Willimantic, nello specifico, risulti atipica per il suo sentire interconnesso all’occorrenza di quella che in molti si sono sentiti di definire, negli anni, come una semplice leggenda metropolitana. Sebbene qualcosa dovesse effettivamente essere capitato in quella fatidica notte del 1754, vista l’esistenza di una certa quantità di racconti, tutti concordanti nel più strano e significativo dettaglio: che il mondo sembrò all’improvviso capovolgersi, mentre ognuno faceva il possibile per difendere se stesso e la propria famiglia. Fino al ritorno delle prime luci dell’alba, quando un coraggioso contingente di milizia popolana coi coltelli figurativamente tra i denti caricò la collina perpendicolare al fiume, per trovarsi innanzi ad una scena niente meno che sconvolgente. Piuttosto che i previsti indiani armati fino ai denti, un grande stagno ormai quasi del tutto prosciugato, ricolmo di quelle che potevano soltanto essere una massa spropositata di rane morte o morenti. I cui squillanti richiami, per tutta la notte, avevano tenuto sveglia la brava gente di Windham, fino al sopraggiungere di un effettivo stato d’isteria collettiva, inclusiva di numerosi proiettili sparati nelle tenebre del tutto prive di alcuna possibilità di rivalsa. L’evento fu immediatamente di dominio pubblico e coloro che ne erano stati direttamente coinvolti, non senza un’encomiabile dose di autoironia, decisero di farne un’emblema ed una sorta di umoristico punto d’orgoglio. Lo stesso reverendo locale, Samuel Peters, ne scrisse in particolare un resoconto piuttosto dettagliato, in cui si narra della maniera surreale in cui alcuni degli anziani della città, trovato in se il coraggio, avessero tentato d’organizzare un’ambasceria da inviare presso il capo degli “indiani” per tentare di negoziare un lasciapassare per le gente già pronta alla resa. Ma nulla di tutto questo ebbe modo di concretizzarsi, quando venne finalmente rivelata l’effettiva portata della verità e l’ecclesiastico venne persino allontanato dalla comunità, come simpatizzante politico di frange destabilizzanti all’ordine civile dello stato.
La storia della grande battaglia notturna era già diventata perciò nel giro di un mezzo secolo parte inscindibile del folklore locale, quando Nason W. Leavitt e suo figlio Burton Leavitt, proprietari di una delle fabbriche di materiali tessili più grandi di Willimantic, decisero d’immortalarla in una celebre operetta comica, intitolata semplicemente “Le rane di Windham”. Produzione farsesca ed informale, che ruotava attorno alla consueta storia romantica ostacolata dalle circostanze, in cui il chiasso disarticolato della notte fatidica si presentava agli spettatori come segno inviato da Dio in persona al colonnello Dyer, affinché permettesse ai giovani innamorati di convolare a nozze, in un finale lieto nonostante il proseguire della guerra dei sette anni.
Dall’analisi scientifica relativa a cosa, effettivamente, possa essere accaduto in quel fatidico giorno emergono perciò due possibilità distinte. La prima è che a seguito di un lungo periodo di siccità, le rane toro di quella particolare zona del Connecticut avessero finito per radunarsi tutte all’interno di quel singolo stagno, iniziando a combattere ferocemente ed emettendo quel terribile frastuono che spaventò la popolazione. Ma l’assenza nelle registrazioni dell’epoca di alcun cenno a tale periodo di disagio climatico hanno dato credibilità, negli ultimi anni, alla divergente teoria di Susan Z. Herrick, etologa nata e cresciuta a Willimantic. Secondo cui l’evento eccezionale avrebbe potuto trarre l’origine da uno stato di sovrappopolazione delle rane toro, che moltplicandosi eccessivamente avrebbero finito per dover rinunciare all’estensione tipica del loro territorio. Finché praticamente, sovrapposte una all’altra, l’istinto le avrebbe indotte ad abbandonare ogni pretesa in merito, dedicando tutte le proprie energie al soverchiare le voci dei rivali nel tentativo di accaparrarsi una compagna. Con le conseguenze cacofoniche di cui abbiamo ricevuto l’impressionante notizia. Un destino frenetico e crudele, di una spietata natura che non tiene particolarmente a preservare i propri rappresentanti più umili, fin dall’epoca della Creazione proseguendo per le epoche dei dinosauri, la cui natura combattiva sopravvive al giorno d’oggi nelle lotte dei batraci squillanti. Purché una palla di moschetto non raggiunga le loro forme nella notte indistinta, per la natura di un (ragionevole?) fraintendimento.