Serpenti alati: tutti conoscono l’aspetto del potente Quetzalcoatl, Dio del quinto sole, gemello prezioso, spirito del vento sudamericano. Ma dall’altro lato del pianeta, nelle terre emerse della seconda isola più grande al mondo, c’è una ragione differente per guardare in alto e preoccuparsi di possibili animali tossici, capaci in linea teorica d’indisporre in modo significativo un elefante. Se soltanto tale pachiderma fuori sede, in un’impeto di carnivora imprudenza, tendesse la proboscide verticalmente verso il cielo. Cogliendo al volo la creatura di passaggio, ali, becco, coda e tutto il resto. “Ridicolo” mi sembra quasi di sentire gli aspiranti biologi dal coro: “Gli elefanti non mangiano gli uccelli! Ed anche se lo facessero, di sicuro questi ultimi non potrebbero arrecare alcun danno al più imponente sistema digerente posseduto da un animale dei nostri giorni.” Orbene son qui oggi per dirvi, che se in merito alla prima affermazione siete sulla strada giusta, nel caso della seconda i fatti vi sono nemici. Come già sapevano studiosi della filosofia naturale quali Aristotele, Filone di Alessandria, Lucrezio e Galeno; ciascuno dei quali, all’interno dei propri scritti, ebbe la ragione e sensibilità di citare la condizione medica da tempo nota come coturnismo: vomito, paralisi muscolare, insufficienza respiratoria e renale. Il tutto come conseguenza del consumo poco accorto, di quantità eccessive di quaglie selvatiche europee (Coturnix Coturnix) durante il periodo delle loro migrazioni primaverili. Quando transitando oltre le montagne che dividono i confini arbitrari delle nazioni, mangia ingenti quantità dei semi della pianta che i latini chiamavano Conium e i moderni, molto più semplicemente, cicuta. Il cui contenuto tossico, grazie al perfezionamento evolutivo, non può nuocere al volatile. Ma colpisce e annienta gli organi di colui che ne fagocita le carni avvelenate. Ora la quaglia, in circostanze normali ed al di fuori di quella stagione maledetta, risulta essere perfettamente commestibile ed invero anche apprezzata, come una versione occidentale del potenzialmente mortale pesce palla o fugu cucinato dai giapponesi. Ma se ora vi dicessi che ci sono uccelli, altrettanto immuni all’effetto di una particolare pietanza letale, che risultano pericolosi tutto l’anno? I cosiddetti Pitohui ed Ifriti dell’Indonesia. Ma soprattutto una particolare specie dei primi nota come P. dichrous, simile ad un merlo nero e marrone dalla cresta erettile e sbarazzina letteralmente intriso, fino alla radice delle proprie piume bicolori, della temutissima sostanza nota come BTX o per esteso batracotossina, un termine che viene dalla parola usata scientificamente per riferirsi alle cosiddette rane-freccia, usate per avvelenare le armi degli indigeni colombiani. Col che non voglio certamente affermare che il volatile in questione, un passeriforme della famiglia degli orioli del Vecchio Mondo non più lungo di 22-23 cm, sia solito ghermire e fagocitare l’orribile anfibio che raggiunge una percentuale significativa della sua dimensione totale. La soluzione è molto più semplice, ed al tempo stesso inaspettata, di così. Trattandosi effettivamente di un rarissimo caso di convergenza evolutiva tra classi distinte, avvicinate dall’inclinazione a fare un singolo boccone (avvelenato) di un insetto della famiglia Melyridae, rappresentato nel caso della Nuova Guinea dal diversificato genere degli scarabei Choresine. L’origine, nonché una zampettante concentrazione, del Male…
L’effettiva scoperta scientifica e conseguente descrizione di tale fenomeno era in realtà da sempre largamente noto ai nativi dell’isola, tanto da giustificare il nome nella loro lingua di Pitohui (“uccello-spazzatura”) poi esportato nel mondo accademico, nonostante il convito tentativo da parte del grande naturalista Charles Lucien Bonaparte di farlo battezzare con l’epiteto latino di Rectes. Ciò detto, la questione degli uccelli velenosi o tossici è a tal punto trascurata dagli studiosi, che potremmo affermare di trovare una prima ricerca sull’argomento in oggetto non prima dell’epoca contemporanea e più precisamente grazie agli scritti del biologo dell’Università di Chicago Jack Dumbacher, risalenti all’ultima decade dello scorso millennio. E interconnessi ad un aneddoto frequentemente ripetuto, di lui che trovandosi in terra indonesiana per catturare, classificare e liberare potenziali nuove specie di uccelli del paradiso, si ritrova improvvisamente una delle proprie reti letteralmente piena di questi uccelli. Il che, in un impeto di empatia e dispiacere, lo porta a commettere il suo primo errore: precipitarsi per aprire a mani nude la trappola noncurante delle molte beccate e graffi arrecati dai pennuti terrorizzati. Il che avrebbe anche potuto non avere conseguenze, visto come nessun tipo di uccello esistente, non importa quanto tossico, abbia la capacità d’inoculare il proprio veleno nella maniera aggressiva tipica dei serpenti. Se non che Dumbacher commise il suo secondo e ancor più problematico passo falso, portando la mano alla bocca per fermarne il sanguinamento. Evento a seguito del quale, pressoché immediatamente, si ritrovò a sperimentare una perdita di sensibilità della bocca ed una sensazione di torpore destinata a durare un’intera giornata. Soltanto molto dopo, conversando con un suo studente che aveva avuto una reazione allergica preparando alcuni esemplari defunti ed impagliati di Pitohui per l’esposizione museale, gli riuscì quindi di effettuare l’essenziale connessione, iniziando una serie di test destinati a rivelarsi niente meno che rivelatori. Il grazioso e piccolo volatile, dunque, avrebbe mostrato tracce di BTX all’interno di ciascuno dei propri organi ma una concentrazione particolare nella pelle e le piume. Lasciando intendere una possibile funzione per dissuadere i predatori come anche supportato dalla sua colorazione aposematica non così dissimile dalle sopracitate rane. L’associazione con gli scarabei avvelenati sarebbe quindi giunta dall’inventario del contenuto dello stomaco dell’uccello, mentre numerose e divergenti speculazioni avrebbero avuto luogo in merito alla reale funzione di una simile nocività di seconda mano, vista la concentrazione molto minore di veleno posseduta dal pennuto rispetto alla rana, risultando potenzialmente inefficace nello scoraggiare eventuali predatori di grandi dimensioni. E prove tecniche, a tal proposito, si sarebbero dimostrati sufficienti a dimostrare una lieve irritazione, ma non molto più di questo, nel pitone arboricolo o il serpente marrone, tra i principali nemici di questo uccello. Mai provato, eppure presumibilmente grave, l’effetto invece probabile nei confronti di carnivori più piccoli e ladri di uova, sopra i cui gusci tracce significative di tossina potrebbero cadere ed accumularsi, costituendo l’esempio proverbiale della polpetta o eggs benedict avvelenati. Un pericolo per gli aggressori di cui gli stessi pulcini sembrerebbero essere coscienti, vista la loro abitudine a ergersi dritti se minacciati, alzando la cresta ed emettendo versi rumorosi, tutto il contrario dell’istinto di un passeriforme dei nostri lidi.
Il che ci porta alla terza, e forse più probabile delle teorie, secondo cui la funzione del veleno in questione potrebbe sembrare a noi meramente collaterale, risultando d’altra parte molto utile per l’uccello: quello di annientare sul nascere ogni possibile infestazione di pidocchi delle piume o altri simili parassiti, letteralmente stroncate sul nascere dal contenuto nocivo di quest’ultime, letteralmente inavvicinabile da parte di qualcosa di tanto piccolo e chimicamente vulnerabile come un insetto. Qualcosa che accomunerebbe quindi tutti gli altri appartenenti al genere dei Pitohui ed anche l’ifrita dalla testa blu (I. Kowaldi), non a caso localmente associato al genere degli “uccelli spazzatura” pur essendo biologicamente distinto. Ma simile nelle abitudini, di un insettivoro e mangiatore di semi, spesso gregario anche con specie differenti di cui è in grado di auto-eleggersi capitano di stormo. Guidato da quella baldanza posseduta unicamente da coloro che possiedono una dose di letalità decisamente superiore alla media. Tale da indurre un cauto rispetto in ogni tipo di creatura, affine alla ben nota prudenza dell’elefante.