Al termine del primo capitolo del romanzo Hawaii di James A. Michener, che descrive la formazione vulcanica del popoloso arcipelago del Pacifico settentrionale, una dichiarazione programmatica prospetta il tono che accomunerà le alterne vicende dei diversi popoli e personaggi, utilizzati dal narratore per delineare attraverso i secoli la storia di quel paese: “Uomini della Polinesia, di Boston, della Cina e del Monte Fuji e dei barrios delle Filippine, non venite in queste terre a mani vuote o poveri di spirito. Non c’è cibo qui. Non c’è certezza. Portate i vostri Dei, i vostri fiori e i vostri concetti. Senza risorse, qui perirete. In questi termini, le isole vi aspettano.” Il tipo di situazione che potremmo ritrovare in molte trascorse esperienze di colonizzazione, portate a termine dai popoli con le finalità ed obiettivi più diversi. Gente come i Vichinghi della Scandinavia medievale, che stanchi di combattere e preservare il predominio su terre contese, s’imbarcarono con armi, mogli e figli, per andare a vivere in luoghi del tutto privi dell’acredine in cui avevano trascorso i travagliati giorni della loro esistenza europea. Coste come quelle dell’isola americana di Terranova, oggi sappiamo, che loro chiamarono Vinland (ᚠᛁᚾᛚᛅᚾᛏ) dalla vite selvatica che vi cresceva in quantità copiosa. Ma prima di raggiungere l’altro lato dell’oceano, facendo sosta e presto stabilendosi presso un luogo che potremmo definire al tempo stesso parte del Vecchio Continente ed insolito per molti aspetti, tanto da costituire un universo grigio e contrapposto ad una terra in qualsivoglia modo “accogliente”. Almeno, prestandogli occhio al giorno d’oggi, in cui l’Islanda si presenta tanto atipica da essere stata impiegata al principio degli anni ’60 per preparare Buzz Aldrin e gli altri astronauti del programma Apollo al possibile aspetto paesaggistico del nostro satellite lunare successivamente allo sbarco. Ma è davvero sempre stata in questo modo? Secondo l’analisi retrospettiva degli studiosi, botanici, geologi ed archeologi, prima del decimo secolo questa era un’isola coperta per tre terzi da vegetazione rigogliosa ed abitata da un singolo mammifero di terra: la volpe artica. Una condizione idilliaca destinata a cambiare radicalmente con l’arrivo del secondo, che precorrendo di parecchi secoli l’esortazione del romanzo, oltrepassarono l’oceano accompagnati da pecore, capre, bovini ed altri animali capaci di agire come una sorta d’implacabile armata di tagliaerba, eliminando tutto quello che non poteva essere agevolmente ricostituito in tempi brevi. Mentre il resto veniva utilizzato per costruire abitazioni e navi. Questo perché il suolo per lo più pietroso dell’isola del fuoco e della lava, per usare un’associazione largamente nota, presuppone periodi in media molto più lunghi del normale per la crescita di un manto smeraldino filiforme, per non parlare di alberi ed altre piante dal fusto preminente sopra il chiaro segno della radura. Il che avrebbe annullato ogni speranza di ricrescita o sostenibilità zootecnica, almeno finché in tempi relativamente recenti all’importante figura del botanico Hákon Bjarnason, direttore del Servizio Forestale Islandese, non venne in mente nel 1945 di compiere un viaggio fino alle vaste distese climaticamente simili d’Alaska. Da cui avrebbe fatto ritorno custodendo in valigia il chiaro seme di un possibile sentiero di rinascita, replicato in plurime occorrenze pronte a salvare/devastare l’aspetto tipico di un’intero paese…
Fu l’inizio dell’epoca del Lupinus, con le sue distese di attraenti infiorescenze piramidali color lavanda. Un gusto ed un sapore affascinante, così come problematico sotto diversi aspetti particolarmente difficili da trascurare. Al punto che attualmente, nel dialogo mediatico e le occasionali interviste rivolte sull’argomento al popolo islandese, è possibile scorgere di nuovo una sostanziale divergenza ideologica tra chi crede che la pianta in questione sia magnifica, nonché un sentiero verso la salvezza dell’intera isola dell’Atlantico. Mentre altri sarebbero pronti a raderne letteralmente al suolo ogni singola aggregazione, per salvare ciò che resta del paese che ha ospitato il susseguirsi delle proprie linee di sangue. Immaginate dunque brevemente la condizione dell’Islanda all’inizio del secolo scorso, con meno del 2% del terreno ricoperto da qualcosa che potesse associarsi al concetto di vegetazione, e il resto del paese, quando non coperto dalla cenere di una qualche eruzione, battuto da venti capaci di sollevare copiose quantità di polvere e terra. Non c’è certo da meravigliarsi per la maniera entusiastica in cui l’iniziativa di trapiantare una piccola quantità sperimentale di lupini di Nootka (L. nootkatensis) così come le genti nordamericane avevano saputo fare per generazioni, utilizzandoli come importante risorsa gastronomica e non solo. Allo stesso modo degli Egizi all’altro lato dell’oceano, dalla cui tradizione avrebbero ereditato questo insostituibile legume gli antichi Romani, attribuendogli il nome latino che ancora possiedono per la presunta capacità di trarre nutrimento dalla terra “con la voracità di un lupo”. Tutto il contrario dell’effettiva realtà dei fatti, quando si considera la comprovata dote di una tale pianta di acquisire e fissare il nitrogeno dall’atmosfera trasferendolo all’interno delle proprie radici, da cui farlo filtrare sottoterra con immediato aumento della fertilità futura. Il tutto verso un progetto almeno in apparenza conduttivo verso un loop di risposta positiva, in cui le più alte forme di vegetazione nativa avrebbero potuto trarre beneficio dal fenomeno, tornando a crescere e togliendo luce al pur sempre utile intruso. Ma poiché, come oggi sappiamo fin troppo bene, spostare forme di vita fuori dal proprio territorio di appartenenza può portare a conseguenze difficilmente prevedibili, l’idea del Prof. Bjarnason avrebbe finito per aprire l’ideale scatola di Pandora lasciando che il destino tornasse a prendere il sopravvento. Quell’ideale deserto incoltivabile di cui parlavamo poco sopra rappresentava, infatti, per le piante di lupini una favolosa terra d’opportunità, ove crescere incontrastate e totalmente incommestibili da parte di ogni erbivoro attestato entro i confini dell’isola. Questo per il gusto amaro dovuto agli alcaloidi dei corposi semi, effettivamente capaci di causare avvelenamento dell’organismo senza un’appropriata preparazione culinaria. La forza dei venti, inoltre, assieme ai molti dislivelli del paesaggio islandese, avrebbero permesso a tali capsule di rotolare e disperdersi agevolmente una volta staccatosi dalla pianta, permettendo la progressiva e migliorata propagazione della sua stirpe. Con una rapidità niente meno che impressionante: un’esponente del genere Lupinus vive infatti in condizioni ideali per un periodo di circa 20 anni, liberano agevolmente 2.000 semi al termine di ciascuna stagione primaverile, abbastanza da riuscire a ricoprire ampi spazi con un impenetrabile ed impressionante mantello dall’indimenticabile tonalità cromatica simile a uno tsunami di succo d’uva.
Lupini ovunque e lupini sopra ogni altra cosa immaginabile. Fino al punto di annientare per mancanza di spazio quelle stesse piante “alleate”, dalla crescita più lenta, che la loro introduzione avrebbe dovuto permettere di fertilizzare. Le statistiche del resto parlano chiaro, con circa lo 0,4% dell’intera isola ormai ricoperta dalla marea viola in base a stime catturate dagli aerei, su un totale dell’appena 25% del suo territorio caratterizzato da qualsiasi cosa possa definirsi una tangibile forma di vita vegetale. Mentre accurati studi biologici (vedi J. Willow et al, 2017) hanno ampiamente dimostrato la maniera in cui, nel giro delle prossime decadi, le specie maggiormente specializzate tra gli insetti impollinatori nativi andranno incontro ad un’inevitabile riduzione della loro popolazione complessiva, risentendo in via diretta dell’annullamento della biodiversità da cui avevano saputo trarre storico giovamento. In una sorta d’inversione dell’apporto benefico che, almeno in linea di principio, muove i gesti di coloro che amano la scienza la natura. Per cui è possibile rovinare lo stato delle cose, pur essendosi attivati assolutamente a fin di bene. E tutto ciò che resta, a quel punto, è convivere con le conseguenze (esteriormente splendide) dei propri errori. Perché l’Islanda potrà anche essere stata salvata, dall’erosione, la polvere e l’aridità, grazie all’introduzione dei teneri virgulti presi in prestito da Oltremare. Ma chi può dire quanto a lungo, d’ora in poi, potremo continuare a chiamarla con lo stesso nome?