Obelischi di basalto nell’oceano e l’impervio sentiero per il faro più remoto d’Islanda

Secondo le leggende ripetute tra la gente di queste parti, la formazione di una colonna basaltica in mare aperto è una faccenda piuttosto semplice: essa trae la propria origine dal fato sfortunato di un troll, intenzionato a rendere la vita impossibile o trarre qualche possibile vantaggio dall’assalto di una nave in campo aperto. Poco prima di rendersi conto di aver calcolato male i tempi, venendo perciò sorpreso dalla luce dell’alba e andando incontro all’irrisolvibile trasformazione in parte del paesaggio marino. Testa, braccia e gambe erose dall’insistenza implacabile degli elementi, la statua vagamente umanoide si trasforma quindi dopo qualche secolo in uno scoglio simile a molti altri, la cui unica caratteristica particolare è la collocazione in posizione totalmente solitaria o per lo più, accompagnato da qualcuno dei suoi simili e altrettanto malcapitati. Di sicuro l’intero approccio scientifico alla faccenda, che prevede l’affioramento di materia lavica durante un’antica eruzione, poi corroso e ridotto fino al nucleo solido che originariamente conteneva al suo interno, non semplifica in maniera molto significativa le conseguenze. Per coloro che nei mari dell’Islanda meridionale, hanno la necessità di muoversi frequentemente, alla ricerca delle foche, balene ed altre fonti di cibo marino che da sempre costituiscono un’importante parte delle risorse alimentari di quel paese. Finché una serie ripetuta di naufragi a ridosso della roccia totalmente priva di approdi circa 7,2 Km a sud di Búðarhólshverfi, costati ogni volta una quantità variabile di vite umane, non portarono all’elaborazione nel periodo tra le due guerre di un nuovo ed ingegnoso piano. Perché non sfruttare gli avanzamenti tecnologici dell’ultimo secolo, per installare una luce di riferimento sulla cima di quella pietrosa struttura? Quella che storicamente viene definita torre del faro, benché nel caso specifico gli stessi 34 metri di elevazione della roccia avrebbero potuto svolgere la mansione di elevate fondamenta strutturali. A patto di trovare un modo, un qualche tipo d’ingegnosa maniera, per raggiungere coi materiali al seguito la remota posizione futura dell’edificio. Presso tale sito definito geograficamente Tridrangar (Þrídrangar – le Tre Dita) nonostante le rocce siano quattro, venne perciò inviato il direttore del progetto Svavar Tórarinsson Sudurgardi, con al seguito una squadra di esperti alpinisti: Torsteinn Sigurdsson, Melstad Vestm, Hjálmar Jónsson Dälum. I quattro, avendo raggiunto il sito in barca nel 1937 e dopo aver preso atto della situazione, decisero quindi di costruire una via ferrata fino alla sommità di Stóridrangur, la più ampia e in apparenza accessibile delle piramidi basaltiche emergenti dalle onde dell’oceano agitato. Dovete considerare, a tal proposito, come l’invenzione dell’elicottero si sarebbe materializzata solamente l’anno successivo, e d’altra parte sarebbero occorse decadi prima che un simile apparecchio potesse essere giudicato abbastanza sicuro da essere utilizzato in mare aperto. Ecco perché l’unico approccio possibile e per questo “scelto” dalla squadra prevedeva l’utilizzo di una completa attrezzatura da scalata, tra cui chiodi, corde ed ogni tipo di piccozza utile in quel tipo di difficili circostanze. Se non che, verso la sommità della cima, la ruvida pelle del troll avrebbe avuto modo di dimostrarsi ancor più coriacea e impenetrabile del previsto…

La manutenzione di luoghi simili è sempre un’impresa difficile, che tende a prevedere periodi di attività intense e molte ore di seguito prima di poter tornare al campo base. Ciononostante, anche nell’epoca della navigazione satellitare, fari come quello di Tridrangar continuano a mantenere invariata la loro importanza.

Immaginare la scena, così come viene narrata in un articolo del giornale di Sjómannadagsbladi Vestmannaeyja, è un qualcosa di assolutamente vertiginoso ed impressionante. In esso si racconta infatti di come, fermamente intenzionati a non tornare indietro, gli uomini diedero il mandato ad uno di loro di mettersi a quattro zampe sul pendio dello sperone, mentre il secondo gli saliva sopra mantenendosi accuratamente in equilibrio. Questo affinché il terzo potesse salirgli sulle spalle e a quanto pare, raggiungere finalmente la parte orizzontale del massiccio edificio di pietra. E da lì calare in seguito una corda, per permettere ai compagni di raggiungerlo, sarebbe stato un gioco da ragazzi, permettendo al gruppo di constatare l’effettiva possibilità di costruire il pianificato edificio. Assieme alla presenza di scarsissima vegetazione, fatta eccezione per l’improbabile virgulto di una pianta di cavolo forse attecchita a seguito della trasferta di un qualche tipo d’uccello; in altri termini, la situazione ideale per la costruzione di un piccolo edificio quadrangolare. Obiettivo che avrebbe richiesto, a quanto dicono le cronache, un periodo di ben due anni lavorando rigorosamente nelle sole stagioni calde. Ciononostante, ancora nel 1939, con lo scoppio della seconda guerra mondiale il progetto sarebbe andato incontro ad un altro e significativo contrattempo: il sequestro da parte delle truppe di occupazione tedesche dell’impianto d’illuminazione ordinato in Danimarca, così che un secondo sostitutivo dovette essere ordinato dalla Gran Bretagna. Ed ulteriori anni sarebbero trascorsi, fino al 1942, prima che la luce di Stóridrangur potesse iniziare a risplendere sul mare notturno simile a una macchia d’inchiostro ricolma di pericolose insidie. L’edificio stesso, alimentato originariamente con generatori diesel per la mancanza di possibili soluzioni alternative, aveva un’altezza di 7,4 metri in conformazione cilindrica svedese sufficiente, dalla sua collocazione altamente strategica sulla cima dello sperone di roccia, a raggiungere col suo segnale consistente di una lettera “N” in alfabeto morse un tratto di mare significativamente elevato. Fatta eccezione, s’intende, per la parete scoscesa che bloccava in parte la sua linea visuale su di un lato dello scoglio semplicemente troppo irto al fine di riuscire ad ospitare il suo basamento. Considerato naturalmente inabitabile, per l’assenza di qualsivoglia servizio oltre all’inaccessibilità inerente, il faro continuò a funzionare in maniera per lo più autonoma con occasionali interventi di rifornimento e manutenzione fino all’inizio degli anni ’90, quando si pensò di provvedere all’implementazione di un paio di notevoli margini di miglioramento. Il primo, l’installazione di pannelli solari, avrebbe permesso alla luce di funzionare in autonomia per tempi molto più estesi. Ed il secondo, consistente nella costruzione di un quadrato in bilico di appena quattro metri di lato, avrebbe consentito di atterrare con un elicottero a poca distanza dalla porta d’ingresso principale. Oggigiorno, in effetti, l’unica possibilità di accesso rimasta verso l’edificio del faro, causa le modifiche effettuate al sentiero costruito negli anni ’30 per poter provvedere alla sua costruzione.
Famoso in tutto il territorio delle vicine isole Vestmannaeyjar o “Degli uomini dell’Ovest” per la popolazione costituita in epoca tardo medievale dalle genti rapite e trasportate fin qui dall’Inghilterra ed Irlanda a seguito delle antiche scorribande vichinghe, il faro delle Tre Dita costituisce il più riconoscibile ed iconico di una serie di quattro, che includono quelli altrettanto automatici di Faxasker a nord e Urdir a sudovest, mentre il resto dell’arcipelago viene protetto dalla vasta stazione d’illuminazione Stórhofdi sull’isola maggiore di Heimaey, l’ultimo faro con guardiano attivo nell’intera Islanda.

Non avviene di frequente che un video musicale possa riuscire a generare un senso di vertigini incipienti. Attirando un pubblico possibile di squali, ed orche assassine, nell’attesa spasmodica che un membro del gruppo possa decidere improvvisamente di dedicarsi al crowd surfing.

Il faro è quindi diventato particolarmente popolare online, come spesso càpita di questi tempi, grazie a una serie di foto tra cui quella scattata dalla cabina di un elicottero della guardia costiera da Árni Sæberg, basata su di un gioco prospettico capace di far sembrare il faraglione ancor più stretto di quanto sia effettivamente. Fino all’esplosione virale del 2009 grazie a una condivisione da parte del cantante canadese Justin Bieber, che pensò di condividerne l’immagine sui suoi principali profili social, favorendo l’elaborazione della consueta serie di bizzarre ipotesi e teorie. Tra cui la supposta condizione ideale di un simile luogo per rifugiarsi in caso d’invasione degli zombie, ma anche quella decisamente più plausibile che potesse costituire un ideale rifugio per le personalità marcatamente introverse, dove ritirarsi a meditare, leggere, suonare la chitarra… Visione quest’ultima destinata in modo particolarmente sorprendente a realizzarsi nel 2021, in pieno periodo della pandemia, quando il gruppo rock islandese dei KALEO realizzò l’iniziativa di girare un proprio video musicale dalla posizione poco pratica dell’eliporto, concludendo l’ideale serie costituita dalle loro esecuzioni precedenti su di un iceberg nel mezzo dell’oceano e dentro il cratere fiammeggiante di un vulcano attivo, la camera magmatica del Þríhnúkagígur (Tríhnúkagígur).
Un modo… Diverso, quindi, di riuscire a rapportarsi con la natura? Oppure, l’unione imprescindibile tra semplici necessità dei tempi che corrono, alla ricerca di una solitudine a cui l’uomo contemporaneo è ritornato ad agognare, mentre attende di vedere luci all’orizzonte che potrebbero non palesarsi in tempi abbastanza brevi? Di sicuro, prima che il livello del mare oceano possa sommergere una casa come questa, dovrà trascorrere un periodo di tempo necessariamente esteso. Facendone il sito ideale per lasciare un qualche tipo di messaggio, o capsula del tempo, come monito all’indirizzo delle possibili generazioni del nostro domani.

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