Alle cinque in punto di mattina, la temperatura ambientale era ancora ben lontana dai mostruosi 52 gradi diurni, non superando neppure quella di una calda estate californiana. Per questo i membri in servizio attivo del 169° Battaglione d’Ingegneria, 60° Divisione, erano già intenti a controllare le condizioni dei propri mezzi da combattimento speciali, connotati da una lunga serie di tratti distintivi rispetto al normale parco veicoli dell’Esercito Americano. Un corpo verde supportato dal canonico paio di cingoli, con la cabina di controllo protetta da una solida gabbia anti-detriti e reti protettive per proteggersi dagli animali selvatici e l’eventuale assalto dei guerriglieri. Un motore ottimizzato per produrre coppia in condizioni particolarmente ostili, sia dal punto di vista dello sdrucciolevole terreno della giungla vietnamita, sia per quanto concerne il clima umido e bollente della penisola in quel drammatico 1967, dopo oltre una decade di conflitti sanguinosi ed inconcludenti sul suolo dell’Asia meridionale. E sul davanti, la ragionevole approssimazione sovradimensionata di un’imponente arma medievale, tagliente come un’alabarda montata di traverso e dotata, alla stessa maniera di questa, di una minacciosa punta ad una delle due estremità, usata per trafiggere ed annientare il proprio stolido nemico; in altri termini, una pala romana (Rome Plow) così chiamata per la provenienza dalla non antichissima città di Roma, verdeggiante stato della Georgia. Uno strano silenzio sembrava pervadere la congrega, come una sorta di quiete prima della tempesta, o forse un segno di rispetto nei confronti dei compagni caduti all’apice della giornata precedente. A un segnale del sergente incaricato di supervisionare le operazioni della giornata, i piloti a bordo dei bulldozer avviarono i motori quasi all’unisono, iniziando a spostarsi nella radura per assumere la tipica formazione operativa a forma di cuneo. Due trasporti truppe, carichi di uomini armati fino ai denti, affiancavano i due lati estremi della formazione. Nel contempo un M48 Patton, col cannone principale puntato minacciosamente in avanti e diagonalmente verso il cielo, li seguiva da presso, mostrava l’evidente intento di supervisionare le operazioni. Con il sole già all’altezza approssimativa di una trentina di gradi, le loro ombre cominciarono ad accorciarsi e scomparire, mentre al frastuono roboante di un siffatto gruppo di mezzi bellici, la parete quasi solida della giungla cominciava a profilarsi svettando incombente sopra di loro. Eppure quando già le prime fronde avvolgevano il bulldozer a capo della fila, nessuno sembrò accennare a rallentare, né tanto meno azionò il pedale del freno. Con un rumore stridente simile ai gridi dei dannati all’Inferno, la prima pala penetrò dolorosamente oltre gli strati esterni della corteccia e fin dentro il legno vivo di un albero di Mogano alto almeno 35 metri. Copiose fronde caddero sopra le prese d’aria del rigido cofano veicolare. Che il secondo pilota a bordo, senza esitazioni, si affrettò a scansare di lato con il calcio del suo fucile. Il rumore segmentato dell’elicottero di supporto ed avvistamento, appena decollato dal suo spiazzo di volo, cementò il bisogno di procedere in avanti, senza soste o alcun tipo di pietà rimasta dall’eredità druidica dei nostri predecessori.
Tutte le guerre iniziano con le migliori intenzioni, per lo meno dal punto di vista di coloro che ne accendono le micce ordinatamente disposte sopra il tavolo ignifugo della storia. Ma è con l’inasprirsi del conflitto, e l’accumularsi delle situazioni irrisolte, che i rispettivi schieramenti iniziano a spazientirsi, iniziando a utilizzare metodi non propriamente convenzionali e proprio per questo relativamente inumani. Soltanto non è frequente, per lo meno nella misura del primo conflitto per durata e perdite nella seconda metà del Novecento statunitense, che sia la natura stessa a pagare un conto particolarmente doloroso e salato, in aggiunta a quello innegabilmente terribile toccato ai membri più o meno combattenti delle genti abitate ad abitare in questi luoghi. Particolarmente a partire dal 9 gennaio di quell’anno, quando fu dato il via all’operazione Cedar Falls, per l’effettivo e completo smembramento di quella che potremmo definire come la roccaforte più imprendibile a pochi chilometri da Saigon, utilizzata per un periodo di oltre una decade dall’armata irregolare dei Vietcong. Un triangolo di giungla pluri-secolare, dove neppure due persone avrebbero potuto procedere spalla a spalla, senza trovarsi incapaci di procedere nell’interstizio costituito da una coppia di tronchi…
Furono anni difficili, quelli, e battaglie prive di un’impronta che potessi dirsi in qualsivoglia modo soddisfacente. Anche e soprattutto per gli americani, vista la maniera in cui il nemico esperto contro cui combattevano, ogni volta che subiva una sconfitta in campo aperto, si affrettava a ritirarsi in quell’oscuro labirinto vegetale, dove ogni cespuglio diventava un nido di cecchini, ciascun cumulo di foglie la possibile presenza di una trappola pronta a ferire, o uccidere i soldati dello schieramento occidentale. Per una promessa liberazione e democratizzazione del capitalismo che tardava a palesarsi, finché non venne gradualmente trovato l’approccio valido a privare i vietnamiti del loro più importante strumento di autodifesa. Così iniziò l’impiego su ampia scala mediante bombardamenti a tappeto aeronautici, spruzzatori dagli elicotteri ed il lancio di proiettili d’artiglieria, del più inumano diserbante mai creato dall’uomo, il terribile Agente Arancio a base di diossina, sostanza in realtà incolore (il nome derivava dai fusti usati per il trasporto) e capace di agire come un’arma chimica in tutto tranne che la sua qualifica ufficiale, costringendo le truppe ostili a frettolose ritirate fino ai recessi più sicuri delle loro roccaforti spesso costruite nel sottosuolo, dove avrebbero contratto ogni sorta di difficoltà respiratoria e frequenti malattie permanenti. Ciò detto, ogni qual volta lo Stato Maggiore decretava la necessità di avanzare e conquistare il territorio, gli ufficiali sul campo si trovavano di fronte ad un dilemma: rischiare l’incolumità dei propri commilitoni in un assalto alla cieca, o pazientare per i giorni, o settimane, necessari affinché l’acido diclorofenossiacetico o triclorofenossiacetico portasse a termine il disboscamento per cui era stato diabolicamente creato? Questo finché in un fatidico giorno che le cronache collocano alla fine dell’estate del 1966, un rappresentante della Rome Plow Company mise piede sul suolo asiatico presso l’aeroporto di Saigon, ben presto seguito dai cingoli praticamente nuovi di quattro imponenti bulldozer da impiegare nella giungla. Mezzi cingolati, modello Caterpillar D7, in alcun modo dissimili nel proprio aspetto esteriore dagli stessi apparecchi utilizzati limitatamente verso il termine della seconda guerra mondiale, particolarmente nel Pacifico, su isole dal clima e situazione paesaggistica non così lontani dal Vietnam meridionale. Unica differenza, la versione migliorata della propria pala principale, svariate tonnellate di ottimo acciaio in forma convessa, minacciosamente affilato ai margini e dotato sul fianco sinistro del cosiddetto poker (“pugnale”) un rostro acuminato fatto per trapassare da parte a parte i tronchi più solidi della foresta pluviale. Così che il pilota, dinnanzi ad un arbusto particolarmente resistente, potesse conficcare l’arma lateralmente e utilizzare i potenti cingoli per ruotare ripetutamente come nel tentativo di piantare un chiodo gigante. Una volta costituite le divisioni operative incaricate di impiegarli sul campo, soprannominate con particolare appropriatezza Jungle Eaters (Mangiatori della Giungla) i bulldozer romani non tardarono a mostrare tutta la loro spietata efficienza: un risultato di sei acri ripuliti nel giro di una singola ora per ciascuna operazione attiva risultavano tutt’altro che rari, sebbene non mancassero i contrattempi. Tra cui guasti al motore dovuti al caldo insopportabile, tronchi caduti che coi rami penetravano il tetto blindato del mezzo, oltre all’occasionale attacco diretto dei soldati nemici. Ma tra tutti i pericoli, il più terribile e frequente era quello dell’attacco delle api vietnamite, disturbate accidentalmente al procedere della formazione inarrestabile, le quali penetravano agevolmente qualsivoglia blindatura, ogni tipo di protezione immaginabile, andando a colpire direttamente l’equipaggio incaricato di compiere l’impresa. I soldati assegnati alle compagnie di disboscamento venivano impiegati per lunghi tour operativi di 45 giorni sul campo, seguiti da 15 di riposo, durante cui lavoravano per una quantità stimata di 12 ore al giorno. Costituendo molto spesso la primissima linea di un fronte di avanzata in territorio ostile, si stima che al termine del coinvolgimento statunitense del conflitto almeno due su tre di coloro che si occuparono di tale mansione siano rientrati tra le perdite del conflitto, restando feriti o perdendo la vita mentre assecondavano l’imperialismo economico e politico della propria grande nazione.
Innegabilmente efficienti nello svolgimento del proprio compito, nonché un esempio straordinario di logistica ininterrotta per oltre 30 anni e più da parte delle Forze Armate, i caterpillar di disboscamento vengono oggi considerati come l’ultima risorsa possibile e particolarmente poco coscienziosa per accorciare i tempi di un conflitto armato. Capace di lasciare lunghe cicatrici nel territorio stesso di un intero paese, positivamente e ulteriormente accresciute dopo la ripartenza e disattivazione delle compagnie occidentali dedicate al loro utilizzo nel 1971, quando i veicoli vennero ereditati con entusiasmo dalla stessa popolazione militarizzata locale. Che continuò e continua ad impiegarli ancora oggi, in una vasta quantità di operazioni infrastrutturali dal variabile grado di sostenibilità. Al punto che taluni analisti storici, come il Prof. emerito Richard Falk dell’Università di Princeton, non hanno esitato a definire nei propri testi il comportamento degli americani in Vietnam come un vero e proprio “ecocidio” equiparandolo di fatto a un letterale crimine commesso ai danni dell’umanità futura. Uno scenario potenzialmente anticipato dall’autore di letteratura fantascientifica Theodore Sturgeon, che nel 1944 aveva scritto un racconto in cui uno di questi veicoli, soprannominato ancora all’epoca Killdozer, veniva controllato da una misteriosa entità aliena, sterminando i membri addetti alla costruzione di una pista di atterraggio su di un’isola durante la campagna del Pacifico al culmine del secondo conflitto mondiale. Una visione stranamente pregna, di cosa possa fare uno strumento simile guidato da un intento chiaramente ostile. Ma è possibile, a conti fatti, immaginare dei sentimenti benevoli, quando ci si mette al volante di una simile risorsa tecnologica del tutto priva di pietà operativa?