Presenza rassicurante dell’ambiente cittadino, al pari dei semafori, cartelli pubblicitari e fermate dell’autobus, l’uccello più integrato con i ritmi e metodi dell’esistenza comunitaria interspecie sembra aver assunto, attraverso il trascorrere dei secoli, una serie di parametri distintamente indicativi. Così nonostante l’avvenuta addomesticazione, in particolari ambienti professionali come la consegna di messaggi, piuttosto che nel settore commerciale degli animali domestici, l’uccello dei giardini e delle piazze non parrebbe aver subito la particolare diversificazione che caratterizza creature come cani, gatti o addirittura pesci rossi discendenti dalla carpa dei laghetti e corsi d’acqua della grande Cina. Quasi come se raggiunto l’optimum di quel lungo e travagliato processo evolutivo, che ha creato in essi il più perfetto cercatore di provviste tra i recessi dell’asfalto ed i secchioni della spazzatura, avessero istantaneamente serrato i rubinetti del progresso a vantaggio della propria grigia progenie alata. Se non che in determinate circostanze alternative, dove i grattacieli perdono l’asfalto e sono fatti di corteccia, legno e intrecci di radici, è stata la natura stessa di suo pugno a disegnare una diversa soluzione della stessa equivalenza matematica, giungendo ad un valore di X dalle dimensioni a metà tra una pernice ed un pollo domestico, creature con cui condividono anche la poca predisposizione al volo. Chiamato non per semplice similitudine creata dagli artisti, Otidiphaps nobilis ovvero il “nobile” piccione-fagiano. Il tipo di volatile non privo di una sua innegabile ed invero sostanziale eleganza, con il corpo nero sormontato e incorniciato dalle piume delle ali di un contrastante color nocciola, che continuano in una coda piatta a ventaglio capace di ricordare vagamente i plurimi cappelli costruiti con le piume degli eponimi volatili europei. Nonché, vero e proprio segno particolare di riconoscimento, un piccolo rettangolo in corrispondenza della nuca, di una colorazione appartenente a ben quattro possibili varietà distinte, contrastante con gli occhi e il becco dall’intensa tonalità vermiglia.. Ora tale aspetto di raffinatezza e signorilità, fin dalla prima classificazione avvenuta nel 1870 ad opera del grande ornitologo britannico John Gould, fu alla base di una lunga serie di disquisizioni, in merito alla possibilità che i rilevanti aspetti dell’eclettica e possibilmente monotipica specie nella vasta famiglia dei Columbidi potessero effettivamente essere altrettanti specie differenti, piuttosto che varianti dello stesso animale. Un approccio contestuale particolarmente utile, in potenza, nell’agevolare la conservazione del nostro amico, all’interno dei suoi specifici e notevoli ambienti di provenienza. Già perché il piccione fagiano, per quanto concerne il proprio areale di provenienza, vanta una terra dalle caratteristiche geografiche altamente distintive: niente meno che la seconda isola più vasta al mondo della Nuova Guinea, assieme all’arcipelago di piccoli satelliti di terra emersa che gli ruotano attorno tra il suono ripetuto ed il ritorno prevedibile dell’alta marea. Là, dove non sempre gli uomini e le donne hanno avuto il coraggio e l’inclinazione di avventurarsi alla ricerca di eccezionali, biologici tesori…
Uno dei punti chiave in merito ai pochi dati di cui disponiamo per quanto concerne l’imponente piccione papuano e che la stragrande maggioranza di essi provengono, in effetti, dalle prime operazioni di allevamento e riproduzione in cattività, vista la difficoltà di osservare questi uccelli nei propri ambienti naturali di provenienza. Molto più schivi e attenti a ciò che li circonda rispetto ai distanti cugini delle città orientali, nonostante la sostanziale assenza di predatori alla base del loro chiaro esempio di gigantismo isolano, questi abitanti delle profondità boschive hanno infatti la tendenza a mantenersi ben lontani dai rumori ed il frastuono prodotti dalle cacofoniche circostanze della società contemporanea. Al punto che, pur disponendo di dati molto limitati in merito alla popolazione di tutte e quattro le sottospecie, si sospetta un sostanziale calo di numeri causato dalla semplice inferenza della riduzione dell’habitat, accelerata in modo significativo per l’estendersi delle piantagioni di canna da zucchero nell’isola centrale della Nuova Guinea. Questo per quanto concerne il piccione fagiano dal collo grigio e quello (nominale) dal collo verde o bronzeo, comunque osservati saltuariamente dagli abitanti delle zone rurali limitrofe alla costa insulare, laddove ben più problematica e complessa risulta essere la situazione pertinente alla coppia di cugini periferici, rispettivamente definiti dal collo bianco e nero. I primi dei quali (O. n. aruensis) comuni negli zoo particolarmente dalla metà del secolo scorso ed a partire dal successo riscontrato nell’allevamento il a parco ornitologico di Walsrode in Bassa Sassonia, risultano naturalmente presenti soltanto presso alcune delle 95 micro-isole costituenti l’arcipelago di Aru, una collocazione geografica poco conduttiva alla coesione dei loro gruppi sociali, anche prima dell’intensità aumentata dello sfruttamento dell’ambiente con finalità di pesca e turismo internazionale, tale da valergli il dubbio status di specie vulnerabile già dal volgere del nuovo millennio. Ancor meno tranquillizzante si sospetta essere, nel frattempo, la condizione presente del piccione dal collo nero (O. n. insularis) dell’isola di Fergusson, il cui ultimo avvistamento ad opera di esseri umani risale ad un singolo esemplare procurato e preservato da Salvin & Godman nel 1883, data dalla quale nessun paio di occhi umani si è posato su questa rarissima varietà pennuta. Il che non basta d’altra parte a sospettarne l’estinzione, considerato il chilometro e mezzo di dense e impenetrabili foreste che circonda i tre crateri del vulcano centrale, avvicinati al massimo da un’effettivo insediamento soltanto nel periodo bellico in cui collocata sulle spiagge sottostanti una base aeronautica statunitense. Provocando assai probabilmente, per quanto ci è dato di comprendere, una frettolosa e pressoché totale ritirata dei grossi piccioni verso l’entroterra, dove si trovano tutt’ora, ben lontani da possibili sguardi indiscreti.
Si usa dire come valida connotazione ad una ricerca di appropriati stili di vita, che noialtri siamo ciò che mangiamo, ed è una semplice evidenza data dall’osservazione della natura che un simile stralcio di sapere popolare, come tanto spesso capita, possegga la scintilla mistica ed inafferrabile dell’assoluta realtà. In modo tale che un piccione lasciato alle proprie implicite prerogative, che ragione ha di continuare a librarsi in volo? Piuttosto che adattarsi ad una vita di ricerca pressoché continuativa di possibili fonti di cibo tra i semi e la frutta caduta a terra, così come già fatto in altri luoghi da pennuti appartenenti ad altri generi nel vasto e ombroso albero della vita. E se ciò significa nutrirsi unicamente di quei semi e frutti caduti che gli riesce di trovare negli immediati dintorni del proprio luogo di nascita, ben venga, soprattutto quando questo è caratterizzato dai preziosi presupposti di un ambiente ancora in grado di nascondere i suoi segreti. Alla stessa maniera in cui un ripetuto scherzo internettiano vuole che la rarità con cui vediamo i piccoli dei piccioni costituisca la prova chiara, ed inconfutabile, che si tratti di sofisticati droni governativi. E cosa potremmo immaginare quando è l’intero gruppo di specie, ad essere introvabile persino da chi riesce a muoversi all’interno di quegli ambienti? Alieni interdimensionali? Avanguardisti che inficiano la divisione tra gli schemi genetici alternativi dell’esistenza? La risposta, come sempre, è custodita nel chiocciante verso che il vento trasporta all’indirizzo dei nostri agglomerati di cemento e vetro. Dove il senso e il modus operandi dei piccioni risultano esattamente all’opposto, particolarmente per quanto concerne l’innata predisposizione all’invadenza. Tutta una questione di programmazione, s’intende.