La passata esistenza di un luogo può essere desunta tramite il principio dell’inferenza, alla stessa maniera in cui scoperte sensazionali riescono talvolta a dimostrare le pregresse trasformazioni geologiche dell’esistenza. Di una Terra che costituisce soprattutto, nell’arco dei possibili pianeti universali, un luogo vivo e soggetto a un lungo e ininterrotto processo di crescita e cambiamento, attraverso l’asse inarrestabile del tempo. Così l’uomo, suddiviso nelle molte civiltà che si sono susseguite nel corso della sua storia pregressa, ha potuto sperimentare ad epoche alterne l’infinita clemenza, o l’assoluta spietatezza degli elementi. E non è del tutto irragionevole affermare, come taluni hanno fatto, che una buona parte dei nostri predecessori abbiano lasciato testimonianze successivamente ricoperte dalla superficie relativamente impenetrabile del vasto e popoloso Oceano, un luogo ove l’inaudibile parola dei pesci è legge, e le iniziative archeologiche di scavo tendono a risultare inerentemente complesse. Attraverso il ricorsivo perpetrarsi delle maree, con l’avvicinarsi parallelamente dell’alto astro dei cieli notturni, qualcosa di diverso ha cominciato tuttavia a verificarsi. Per la prima volta (registrata dalle cronache) nell’anno 1913, quando il paleobotanico Clement Reid, dragando la morena sabbiosa nota come Dogger Bank circa 100 Km ad est della costa d’Inghilterra, ripescò dalla profondità locale di appena una quindicina di metri alcuni resti d’animali terrestri e quella che sembrava essere a tutti gli effetti una pietra di selce modellata dalle mani di artigiani a bipedi e senzienti. Alla stessa maniera in cui, attraverso i secoli, era giunto ad essere largamente acclarato dal senso comune il ritrovamento presso comunità costiere di oggetti e resti simili, lasciati indietro dalla risacca portatrice di un’augusta quanto inquietante novella: che in tempi assai remoti l’intero spazio situato tra le isole britanniche e la parte settentrionale dell’Europa continentale era ricoperta da una massa emersa di estensione paragonabile ai Paesi Bassi. E che analogamente a quanto avvenuto con questi ultimi, essa potesse aver costituito un’ideale culla di comunità ormai lungamente dimenticate, in questo caso probabilmente nomadiche ma non del tutto prive di una propria cultura materiale immanente. Aveva speculato in merito il famoso autore fantascientifico H.G. Wells, citandone l’esistenza nel suo racconto del 1897 “Una storia dell’Età della Pietra” sebbene la sua datazione a circa 800.000 anni fa avrebbe avuto il fato di dimostrarsi, all’analisi contemporanea, di gran lunga troppo remota. Ciò che in misura ancor più rilevante dovrebbe colpirci, infatti, è la relativa vicinanza cronologica di tale verità alle masse continentali che oggi diamo lungamente per acquisite: appena 6-7 millenni, poco meno di un battito di ciglia in termini di geologia e scienze della Terra e in epoca contemporanea all’apice delle civiltà ancestrali del Levante e le altre culle della prime organizzazioni sociali complesse. Questo perché all’epoca del cambiamento, esso avvenne in modo straordinariamente rapido, tanto che persino con l’aspettativa di vita limitata a circa 30 anni dell’uomo primitivo, una singola generazione avrebbe potuto osservarne i preoccupanti effetti: fino a 2 metri l’anno soltanto in forza del mutamento climatico derivante dal superamento dell’ultima glaciazione, abbastanza da ricoprire intere distese coltivabili o sentieri lungamente battuti al volgere di un paio di solstizi, anche senza sottoscrivere le convergenti ipotesi di almeno una, se non due catastrofi dalla portata e devastazione del tutto prive di precedenti. Qualcosa di paragonabile per gli effetti, sebbene su scala immensamente superiore, alla devastazione del Vesuvio arrecata all’antico centro abitato della città di Pompei…
Ne parlano le prove raccolte dall’osservazione costiera della Scozia orientale, dove il particolare profilo rialzato del territorio è stato usato dagli studiosi per teorizzare l’occorrenza di quello che avrebbe potuto costituire uno dei megatsunami più imponenti nell’intera storia del nostro mondo. Un episodio databile, grazie ai rilevamenti al radiocarbonio effettuati sulla materia biogenica riportata alla luce sopra e sotto il livello attuale delle acque, attorno al 7.000-8.000 a.C, in perfetta corrispondenza con la stima più largamente accettata dell’inabissamento finale di Doggerland, e chiamato con il termine altamente programmatico di Storegga Slide. Una frana, dunque, di copiose quantità di roccia e terra verso le profondità marittime mai viste né toccate da mano umana, tale da scatenare un’onda alta molte decine, se non centinaia di metri, a causa di una repentina quanto imprevedibile fuga di gas metano contenuto al di sotto del livello dei ghiacci costieri della Scandinavia. Un letterale colpo di grazia, se vogliamo, alle pianure già semi-sommerse di queste lande destinate all’inabissamento. Nonché possibile clausola di annientamento, già completa nel suo assoluto messaggio di condanna, almeno fino al momento in cui gli studi condotti in una terra d’Oltreoceano parrebbero aver evidenziato l’esistenza di una concausa coéva e non meno devastante. Sto parlando in questo caso della tracimazione e conseguentemente svuotamento parziale del cosiddetto lago Agassiz, teorizzato per la prima volta nel 1823 dal geologo statunitense William H. Keating, un’area d’acqua dolce paragonabile per estensione al Mar Nero situato nell’area corrispondente all’odierno Minnesota, North Dakota e Saskatchewan. La cui restituzione delle acque possedute al grande Dio dei mari Nettuno avrebbe potuto causare, a seguito della liquefazione dell’imponente ghiacciaio di Laurentide durato un periodo di circa due anni, l’innalzamento del livello degli oceani planetari, al punto da inondare numerosi luoghi precedentemente abitabili incluse le vaste pianure selvagge di Doggerland. Un’altra ipotesi da aggiungere alla collezione di possibili cause dunque, sebbene ciò che abbiamo perso, ed in che misura questo potrebbe aver influenzato la storia dell’uomo, resti al giorno d’oggi largamente un mistero.
Eppure, non del tutto: la storia dei ritrovamenti interconnessi alle trascorse collettività umane della nazione scomparsa sotto i flutti nord-europei hanno una frequente ricorrenza nelle cronache britanniche, così come sarebbe avvenuto per la seconda volta (dopo il caso sopra accennato di Clement Reid) alla nave da pesca a strascico Colinda nel 1931, i cui membri dell’equipaggio si sarebbero ritrovati a districare inaspettatamente dal pescato quello che sembrava essere a tutti gli effetti un pezzo di torba, al cui interno giaceva immutato dal trascorrere dei millenni un corno di cervo molto evidentemente lavorato da mani umane, al fine di costituire un qualche tipo di arma o attrezzo da caccia. Abbastanza da riaprire il legittimo sospetto che non tutto ciò che soggiaceva sotto i flutti estemporanei dell’oceano fosse stato sempre caratterizzato da una tale condizione, e forse i nostri predecessori avessero potuto veramente “camminare coi piedi asciutti dalla Francia fino a quella che oggi definiamo l’Inghilterra” e il Tamigi ancora giovane era nient’altro che un mero affluente del grande fiume Reno. Ma il primo diffondersi su larga scala dell’idea sarebbe giunto non tanto in forza dei racconti di un maestro della letteratura fantastica, quanto al principio degli anni ’90, con le mappe ipotetiche prodotte dall’archeologo Bryony Coles grazie ai primi sistemi di rilevamento laser, largamente utilizzati nella ricerca di giacimenti di petrolio all’inizio dell’epoca della digitalizzazione. Fino all’apice raggiunto proprio nello scorso 2019 grazie allo studio pubblicato da un gruppo di scienziati belgi ed inglesi, guidati dal Prof. Vincent Gaffney dell’Università di Bradford, che in una spedizione di 11 giorni di viaggio hanno identificato almeno un possibile centro abitato degli antichi cacciatori e raccoglitori dell’epoca del tardo Neolitico. Provvedendo quindi a ripescare, dagli abissi inconoscibili, l’inconfutabile conferma della loro idea: copiose quantità di pietre scheggiate come segno di un artigianato rudimentale, quanto brutalmente efficiente.
Che l’attuale manifestazione della civiltà umana sia la risultanza diretta di copiosi millenni di perfezionamento e riorganizzazione collettiva, attraverso un susseguirsi di tentativi non sempre oculati, è un dato largamente acquisito ormai dalla collettività accademica ed il sapere della popolazione generalista. Mentre quello che appare più difficile da digerire, al punto da essere talvolta relegato a priori nello spazio delle pseudoscienze o l’equivalente della metafisica in campo umanistico, è l’idea che interi sistemi perfettamente formati e funzionali possano essere andati perduti, in forza di un semplice capriccio geodinamico dell’esistenza. Perché noi non siamo, contrariamente a quanto ci piace pensare, tanto importanti nello schema generale delle cose. E con la preferenza lungamente confermata delle comunità civili a stabilirsi proprio nel confine tra i due mondi, dell’asciutto ed il bagnato, non è affatto imprevedibile che qualche volta gli eventi possano aver preso pieghe particolarmente indesiderabili alla valutazione a posteriori dell’esito degli eventi.
Così come forse un giorno diranno i nostri discendenti, al termine dell’attuale, lenta e inesorabile devastazione definita come grande estinzione dell’Olocene. Il possibile ultimo capitolo di una lunga disavventura di cui siamo stati i principali e maggiormente sfegatati sostenitori. Senza risparmiarci in alcun modo l’opportunità di dire: “Almeno, tra tutte le modalità possibili, abbiamo scelto indipendentemente l’ora e il metodo della nostra fine.”