Per lungo tempo abbiamo convissuto con la consapevolezza che qualità e convenienza siano due dei più importanti meriti commerciali di un prodotto che intenda generare un profitto sul mercato contemporaneo. Ma il mondo ha conosciuto dei periodi, di lunghezza particolarmente variabile, durante cui la mera disponibilità nei confronti del grande pubblico ha saputo spostare l’asse delle aspettative, dal semplice desiderio ad un bisogno imprescindibile dinnanzi a cui qualsiasi altro tipo di pretesa, semplicemente, passava in secondo piano. Ritorniamo con la mente, ad esempio, all’universo nazionale creato a partire dal 1920 dall’atto Volstead o cosiddetto XVIII emendamento, creato da una classe politica fondamentalmente ipocrita col fine dichiarato di “salvare” la popolazione dalle tentazioni demoniache create dall’alterazione, temporanea ed intenzionale, dei propri processi sensoriali e pensanti. Così come avveniva pressoché regolarmente, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, nel singolo paese principale consumatore di alcol al mondo. Capire il periodo del proibizionismo non vuol dire dunque solamente immaginare le ragioni religiose e moralizzatrici di coloro che intendevano acquisire l’approvazione del proprio pubblico elettorale, bensì giungere alla conclusione che per uomini e donne ormai letteralmente terrorizzati dai comportamenti occasionali dei propri parenti, amici e vicini, non sembrava esserci altra possibilità risolutiva. Poco importa che interdire uno dei più antichi beveraggi nella storia dell’umanità fosse formalmente impossibile, nonché conduttivo a un tipo di criminalità orribilmente competente quasi del tutto sconosciuta fino al volgere di quella decade terribilmente complessa: nessuno avrebbe dovuto più contendere l’attenzione dei propri cari con il fondo di una bottiglia. E questo doveva pur avere un qualche tipo d’intrinseco valore!
Il fatto che non tutti, ed invero neppure la maggioranza degli abitanti dei 48 stati (all’epoca ne mancavano ancora un paio) la pensassero a tal modo diventò tuttavia ben presto evidente, mentre il decreto governativo generava un’intera società segreta dei cosiddetti scofflaw, coloro che aggiravano o in qualsivoglia modo si prendevano gioco di una legge giudicata dalla collettività, in una singola parola, semplicemente ingiusta. Al Capone e i suoi colleghi, assieme a pericolosi ed illegali alambicchi per la produzione del moonshine, non erano tuttavia gli unici alleati di costoro, visto come sussistesse una possibile scappatoia posta nella zona grigia della legge che poteva consentire di tornare ai fasti di un pasto davvero completo, tramite l’ingegno corporativo di una certa quantità d’aziende. Tutto iniziava con l’ordine piazzato di persona presso un certo numero di rivenditori autorizzati, principalmente negozi di prodotti gastronomici e varie tipologie di drugstore. Il cliente sceglieva da un catalogo il “modello” desiderato tra sherry, burgundy, porto, riesling, claret… Termini non erano (dichiaratamente) più riferiti in alcun modo a specifiche varietà vinicole bensì alle tipologie dell’uva da cui fino a poco tempo prima, esse venivano prodotte lietamente alla luce del sole. Mentre all’ombra della nuova America, l’unica cosa a cui potevano servire era la produzione di un succo analcolico la cui fermentazione doveva essere rapidamente interdetta tramite decantazione o l’aggiunta di sostanze chimiche specifiche quali il benzoato di sodio. Per lo meno in condizioni sottoposte al controllo regolare di un ispettore di legge, come una fabbrica o altra istituzione commerciale. Laddove ciò che i clienti ricevevano a domicilio in tali circostanze, dopo un’attesa assolutamente ragionevole, era un piccolo parallelepipedo di tonalità rossastra incartato nel cartone, che una volta immerso nell’acqua avrebbe liberato tutto il gusto e le qualità del frutto maggiormente amato dagli enofili. Assolutamente e rigorosamente privo delle sue indesiderabili qualità inebrianti. E meno che…
I mattoni d’uva, chiamati commercialmente per antonomasia Vino Sano o Vine-Glo, dal marchio creato specificamente a tal fine dalla dinastia di vinai dei Gallo, possessori dell’azienda Fruit Industries, venivano per questo rigorosamente accompagnati da un preciso divieto, che potremmo considerare un’effettiva dichiarazione di esclusione della responsabilità. “ATTENZIONE” recitava rigorosamente la confezione: “Una volta reidratato il prodotto e posto all’interno di un contenitore pulito, non lasciare per 21 giorni chiuso all’interno di una credenza lontano dalla luce del sole, poiché potrebbe trasformarsi in vino.” Un’apparente descrizione di un miracolo, nonché almeno in apparenza l’effettiva sfida alla curiosità del cliente, benché fosse null’altro che la descrizione di un mero processo di fermentazione di tipo assolutamente naturale. La generosa quantità di zucchero contenuta nel preparato infatti, assieme ai batteri del lievito imprescindibilmente già presenti negli acini d’uva e nello stesso amido impiegato per la solidificazione del loro estratto, erano più che sufficienti ad avviare “l’indesiderabile” ed assolutamente “deprecabile” processo. In un letterale capolavoro di psicologia inversa, dunque, l’intera comunicazione commerciale dei mattoni d’uva declinò tale messaggio in forma sempre più estensiva ed elaborata, aggiungendo per filo e per segno tutto quello che i clienti NON dovevano assolutamente fare: in un famoso caso riportato sul Chicago Daily Press, una promoter durante l’evento pubblico dell’azienda dimostrava verso la fine degli anni Venti anche per filo per segno i singoli passaggi da EVITARE assolutamente per non ritrovarsi a casa la bevanda rigorosamente vietata nonché del tutto immorale. Il che d’altra parte, faceva parte di una precisa strategia di marketing e nulla più poiché almeno fino ad anni successivi e nonostante alcuni tentativi d’interdizione della polizia come l’arresto nel 1927 del titolare della compagnia Vino Sano, Karl Offer, immediatamente rilasciato per mancanza di termini d’accusa sostanziali, questa particolare prassi produttiva era formalmente permessa dai termini specifici del XVIII emendamento. E addirittura la fermentazione in casa del fluido risultante rientrava tra le pratiche tollerate, a patto che il vino venisse prodotto esclusivamente per uso personale e mai portato al di fuori delle mura domestiche. Il che poneva produttore e consumatore, in questa atipica circostanza, nella strana condizione di essere al tempo stesso complici e del tutto innocenti.
Questa tipologia di prodotti, come potrete facilmente immaginare, ebbero ben presto un significativo successo, anche grazie alla pubblicità onnipresente che arrivava a vantarsi di come lo stesso Al Capone avesse, fantasiosamente, tentato di minacciare personalmente i produttori del marchio Vino Sano per concorrenza sleale. Che ciononostante, continuavano imperterriti nella loro missione, che risultava d’altra parte economicamente imprescindibile allo stato corrente della situazione. Giacché non era certo possibile, per i possessori di un vigneto, convertirlo in altro tipo di terreno per poi sperare un giorno di tornare alla situazione di partenza, così che interi valli nella fertile California assieme ad altre località statunitensi furono adattate alla produzione di un diverso tipo d’uva, molto più economico e resiliente. Il che, di contro, inondò letteralmente il mercato di quantità spropositate d’uva, al punto che si stima che il prodotto un tempo stimato della Napa Valley era passato nel 1932 a un prezzo per tonnellata di soli 59 dollari, contro i 448 del 1921. L’industria agricola statunitense era ormai stata sottoposta a una trasformazione radicale, ed avrebbe richiesto in seguito intere decadi per ritornare allo stato di grazia delle sue generazioni ormai trascorse.
Supportata dalla legge almeno fino alla fine degli anni Venti, grazie all’opera dell’assistente del procuratore generale Mabel Walker Willebrandt, che in seguito diventò avvocato della Fruit Industries con non poco imbarazzo da parte dello stato, la vendita dei mattoni continuò a generare introiti niente affatto indifferenti, sebbene la qualità del vino prodotto domesticamente tramite il loro impiego risultasse essere tutt’altro che eccezionale. Ma nei periodi di carestia o privazione, come dicevamo, la gente è più che mai incline ad accontentarsi. Soltanto nell’ottobre del 1931, con l’ennesima causa dello stato nei confronti delle compagnie private, si riuscì a interdire totalmente la vendita del Vine-Glo, ma a quel punto era già quasi troppo tardi.
Avendo traghettato un’intera generazione di alcolisti o bravi bevitori attraverso la decade più oscura della loro vita, l’intera industria vinicola e farmaceutica americana era ormai vicina all’abolizione del provvedimento Volstead, che sarebbe diventata legge nell’anno 1933. Era la fine del proibizionismo, in altri termini, ed il ritorno ad una civiltà più libera salvo per i provvedimenti indipendenti delle singole contee “asciutte” statunitensi. Che avrebbero mantenuto il severo divieto di vendere alcolici ancora per più di mezzo secolo ed anche a seguito dell’inizio del nuovo millennio, costringendo i loro abitanti a rifornirsi mediante rapide trasferte fuori dal vicinato. Un approccio forse poco risolutivo, in un paese in cui il federalismo ha lungamente costituito una sorta di alibi per le coscienze dei legislatori più conservatori. Mentre è largamente lasciata al popolo degli scofflaws, costruttori di mura impenetrabili dall’occhio del loro nemico, la responsabilità di fornire strade alternative all’auto-annientamento delle libertà civili. Uno strano alibi, tutto considerato. Ma funziona?