Da un punto di vista evolutivo l’assoluta realizzazione tangibile del bisogno di essere lasciati stare, il timido mollusco nel suo guscio ha lungamente atteso il giorno della sua rivalsa sullo spietato sistema naturale di sopravvivenza. Questo finché attorno al Medio Cambriano (all’incirca 500 milioni di anni fa) ad un particolare ramo divergente dal corso principale di quel phylum non venne in mente di abbandonare totalmente ogni possibile strumento di protezione. Il che, per una creatura dal corpo totalmente molle nonché flessibile, significava lasciarsi alle spalle qualsiasi limite dato per acquisito in merito agli obiettivi da essa perseguibili, creando un vasto spazio da riempire con i propri sogni ed ambizioni terrene. Arti che si allungano e moltiplicano, mentre la capacità cogitativa cresce allo stesso tempo con il fine di massimizzarne un impiego sufficientemente utile nella costante ricerca della più importante materia prima dell’esistenza. L’energia, in forma di cibo, nel pratico formato di prede inconsapevoli e incapaci di salvarsi la vita. Perciò in tal senso, è possibile affermare che il cefalopode in quanto tale rappresenti la perfetta manifestazione di una creatura abile nell’attacco ma del tutto incapace di difendersi da un aggressore, una volta che dovesse essere stata colta coi tentacoli, per così dire, “nella biscottiera dei mitocondri”. SE d’altronde riuscirà a qualcuno, o qualcosa, di trovarla. Non è dunque molto complicato comprendere per quale ragione un essere che fa primariamente affidamento sul mimetismo e la furtività per riuscire a vivere un altro giorno, sia anche naturalmente scorbutico nei confronti dei propri simili, preferendo l’assoluta solitudine per la maggior parte del tempo, con l’unica necessaria eccezione dell’accoppiamento, che comunque non si estende per il maschio oltre i pochi minuti necessari per fecondare le uova precedentemente deposte dalla consorte. Dopo di che, grazie e arrivederci, a meno in base alle cognizioni largamente date per buone dal mondo accademico sulle linee guida del know-how guadagnato dai biologi all’interno di questo settore non propriamente incline a generare significative sorprese. Che di per se non restano, d’altronde, totalmente sconosciute nella maniera chiaramente esemplificata dalla scoperta della piccola “città” nota col nome di Octlantis, di per se una replica, piuttosto che versione sovradimensionata, della già nota Octopolis all’interno della stessa baia di Jervis. Un’insenatura marittima ragionevolmente protetta dai predatori, situata non troppo distante dall’omonimo villaggio sulla costa dell’Australia sud-orientale (Nuovo Galles del Sud) e famosa per il possesso di quella che viene convenzionalmente definita la sabbia più bianca del mondo. Assieme a una nutrita popolazione del cosiddetto polpo cupo di Sydney o Octopus tetricus, un tipico rappresentante della sua classe con lunghezza complessiva di 60 cm di cui soltanto 14 rappresentanti dal mantello centrale, con operosi tentacoli che s’irradiano in tutte le direzioni. Utili per raccogliere ed aprire le proprie prede principali, varie tipologie di molluschi bivalvi e qualche granchio, i cui gusci vuoti tende tradizionalmente a rigettare tutto attorno alla propria tana, generando un letterale cerchio rivelatore largamente ignorato dai pesci di passaggio. Ma non dalle persone, e di certo non da Matthew Lawrence, il primo sub a notare nel 2009 la presenza di un accumulo eccezionalmente grande di tale materiale di scarto, tanto che difficilmente poteva essere la risultanza dell’operato di un singolo esemplare di questa specie. Dal che, osservando attentamente il sito nel corso di diverse ore e giornate, scoprì attorno ad esso l’inaspettata convivenza di almeno 15 tentacolati abitanti degli abissi, intenti a fare quello che tanto strettamente siamo soliti associare alla vita condominiale: discutere, combattere, scacciarsi via a vicenda. Una chiara dimostrazione, se mai ce ne fosse stato il bisogno, dell’effettiva somiglianza della loro mente alla nostra…
La scoperta accidentale di un insediamento comunitario formato da quello che era stato lungamente considerato un animale del tutto solitario difficilmente poteva lasciare indifferente la scienza, così che una prima pubblicazione auto-gestita da parte del sub non ci mise molto ad attirare l’attenzione del biologo marino David Scheel dell’Università del Pacifico in Alaska, il quale collaborando con la sua equipe ha ben presto provveduto alla collocazione di una serie di telecamere, per l’osservazione prolungata del primo sito, ribattezzato per l’appunto con il nome prototipico, ed accattivante, di Octopolis. Soltanto per scontrarsi con l’effettiva e inaspettata ferocia dei suoi abitanti, l’abbondante dozzina di polpi non soltanto continuamente in lotta tra di loro, ma subito pronti a coalizzarsi contro “l’oggetto fuori dal contesto” rovesciando i treppiedi, agguantando gli obiettivi digitali e trasportandoli nei loro pertugi, per dare immediatamente inizio ad un convinto quanto inefficace tentativo di distruzione totale. Il che, come potrete facilmente immaginare, non è proprio il contesto ideale per mettere in piedi un progetto d’osservazione, benché la varietà e natura dei dati raccolti si sarebbero comunque dimostrati sufficienti a rivoluzionare un’immagine tanto monolitica quanto incompleta della sostanziale indole dei polpi tetri. In quello che taluni sono giunti a definire come un vero Fight Club, dove il più forte appare sempre incline a far valere i propri diritti sulle tane migliori e più spaziose, mediante tracotanti dimostrazioni di allungamento in senso longitudinale e variazione cromatica verso toni foschi e minacciosi, spesso seguiti da vere e proprie zuffe, sia con la mera forza dei tentacoli che impiegando strumenti, come i gusci impugnati alla maniera di un tirapugni o i sassi lanciati mediante l’utilizzo del proprio sifone di spostamento. Al che sorge ragionevolmente spontanea la domanda del perché, esattamente, i polpi continuino ostinatamente a convivere? Con una possibile risposta individuata nello studio di Scheel e colleghi, tramite l’individuazione di un non meglio definito oggetto creato dall’uomo e non più lungo di 30 cm, come una sbarra capace di bloccare ed assorbire la luce del sole analogamente al monolito nero di Odissea nello Spazio, diventando così per ragioni largamente ignote un punto di focalizzazione dell’interesse dei polpi, tale da monopolizzare e concentrare in questo le loro scelte abitative. Pretesto di partenza d’altra parte totalmente assente nel caso del secondo ritrovamento di una “città sommersa”, ad opera stavolta dello stesso Scheel, in quello che sarebbe stato il soggetto di un secondo studio con il secondo soprannome già citato di Octlantis. Di nuovo una quindicina di polpi tetri, ancora una volta intenti a convivere in una congregazione scomodamente stretta, almeno in apparenza per nulla scoraggiati dalle difficoltà generate dalla vita comunitaria e il grosso bersaglio rappresentato da una simile realtà per eventuali predatori di passaggio. Al che l’elaborazione di un secondo possibile motivo per la loro scelta era d’obbligo, per un ruolo attribuito dallo studioso alla presenza di un accenno di asperità o preminenza nella vasta pianura sabbiosa, potenzialmente assai desiderabile per questi cercatori di rifugi, tanto spesso costretti ad operare una scelta di compromesso. Soprattutto nel periodo degli accoppiamenti, quando per forza di cose si ritrovano completamente allo scoperto, esponendosi ancor più di quanto avvenga nel condividere con gli altri i propri spazi e occasionali attimi d’intimità.
Il polpo tetro, d’altra parte, non costruisce certo le sue tane per preservare i piccoli, che risultano piuttosto totalmente soli al momento della nascita, dovendo apprendere rapidamente ed in totale autonomia tutto il necessario per riuscire a garantirsi la sopravvivenza. In tal senso creature dalla vasta intelligenza, ma anche una predisposizione istintiva notevolmente approfondita, cefalopodi come questi sono stati a più riprese giudicati come un possibile esempio di creatura senziente che coabita il nostro stesso pianeta, pur senza aver mai raggiunto il suo pieno potenziale costruendo quel tipo di opera duratura che identifica l’esistenza pregressa di una civiltà. Questo, a quanto ci è dato comprendere, a causa della loro vita eccezionalmente breve, raramente in grado di superare gli 11 mesi nel caso della specie australiana, quanto basta per raggiungere la maturità sessuale, compiere il proprio dovere biologico ed assolutamente nulla più di questo. Ogni creatura, d’altra parte, è la fondamentale risultanza dei suoi fattori contestuali di adattamento. Ed in quale maniera un essere così fantasticamente vulnerabile, privo di protezioni ereditarie, dovrebbe trarre beneficio da un più esteso periodo di senescenza? Ecco perché quando si parla di una natura spietata, difficilmente si può limitare la propria attenzione ai processi universali di predazione. Ma occorre includere anche le leggi fondamentali che ne regolano i mutamenti, per cui l’utilizzo di una minore quantità di energia, per l’ottenimento dello stesso risultato, rappresenta in senso cosmico la soluzione migliore. Ed il tempo di essere creativi o costruire veri e propri insediamenti, in tutto ciò, è poco più che un mero, spesso indesiderabile fattore collaterale.