Il verde calice del cobra che condanna l’insetto di palude statunitense

Principalmente nel popoloso stato della California, oltre alla parte meridionale del selvaggio Oregon dai verdi boschi ed alte colline, la morte può assumere un aspetto singolare e al tempo stesso stranamente affascinante. Di un fiore ed una foglia ripiegata su se stessa ad arte, in modo tale da costituire a tutti gli effetti uno spazio chiuso, come l’anticamera dell’ultima destinazione di coloro che ne varcano i confini, con assoluta naturalezza d’intenti. Dopo tutto non è certo possibile per una mosca, una zanzara, un coleottero, pianificare il proprio stesso suicidio. Ed è per questo che la Darlingtonia californica, altrimenti detta “giglio cobra” sfrutta i prevedibili meccanismi del loro istinto, per portarli fino all’autonoma ed irrimediabile condanna. Non fatevi, tuttavia, trarre in inganno da quel nome: qui non c’è proprio alcun collegamento con la famiglia dei lilium, né l’aderenza ad alcun tipo di modello proveniente dal vasto regno delle monocotiledoni. Quanto piuttosto l’aderenza a linee guida scritte a chiare lettere nella storia biologica del mondo, in un periodo che viene convenzionalmente fatto risalire all’Oligocene (25-44 milioni d’anni a questa parte) quando questa creatura vegetale corrispondente in maniera univoca ad un genere completamente distinto, ebbe ragione e modo di divergere dalle altre varietà della famiglia Sarraceniaceae, egualmente dedite alla pratica dell’annientamento indistinto e progressivo delle piccole creature volanti di questa Terra.
Sarà chiaro a questo punto il fatto di trovarci innanzi ad una pianta carnivora del tipo cosiddetto ad ascidio, termine riferito per antonomasia anche alla notevole struttura che questa intera categoria forma, tramite l’avvolgimento e la saldatura ai margini delle proprie foglie, verso un risultato del tutto simile ad un calice del tipo normalmente riempito nel corso di occasioni conviviali con il dolce vino ed altre bevande pregiate. E che in effetti anche per loro tende a diventare, nella maggior parte dei contesti ambientali, un ricettacolo dell’acqua piovana, con tutti i problemi che possono derivarne: il peso aumentato che grava sul fusto della pianta, la compromissione dell’esca nettarina usata per facilitare l’ingresso delle prede nella trappola, ma soprattutto l’annacquamento degli speciali enzimi o batteri commensali contenuti all’interno, allungando conseguentemente il tempo necessario alla “digestione”. Così che diverse tipologie di piante carnivore dotate di un calice, da quelle nordamericane alle Nepenthes della parte meridionale di quel continente, impiegano sistemi differenti per limitare l’accumulo di acqua, da vere e propri scarichi in prossimità del fondo, del tutto simili a quello del lavandino, alla presenza di un opercolo, sostanzialmente una sorta di coperchio della foglia, capace di deviare in parte o del tutto l’acqua piovana. Nessuno, tuttavia, del tipo posseduto dalla singolare Darlingtonia, la cui forma arcuata, con sotto una vera e propria lingua biforcuta, finisce notoriamente per rassomigliare a qualcosa di totalmente diverso: la testa concentrata e meditabonda di un serpente pronto a lanciare il proprio assalto all’indirizzo di una vittima inconsapevole ed impreparata…

La trappola della Darlingtonia agisce su più livelli, attraendo le sue vittime non soltanto grazie al nettare odoroso, ma anche per l’interesse naturale di talune specie volanti nei confronti di spazi angusti in cui nascondersi dai predatori. Ragion per cui riesce a intrappolare anche prede non interessate alla sua generosa offerta di cibo, come mosche o zanzare.

Come nell’epilogo di una fiaba primitiva sulla nascita di quella o questa costellazione del cielo notturno, tuttavia, la serpe verde in questione non può e non vuole muoversi qualsiasi cosa accada, essendo quest’ultima pur sempre dotata di un convenzionale sistema di radici, sebbene tutt’altro che profonde. Ciò in quanto, essendo naturalmente originaria di acquitrini e paludi e torbiere dei due soli stati facenti parte del suo areale di provenienza, essa necessita di fare i conti con una naturale assenza di sostanze nutrienti provenienti dal sottosuolo, ragion per cui l’occasionale cattura dell’insetto di passaggio diventa ben più che un valore aggiunto, bensì la singola e primaria fonte di nitrati necessari alla continuazione della proprie esistenza. Ed è qui che chiaramente entra in gioco, giorno dopo giorno, lo straordinario ingegno espresso come culmine di un lungo processo d’evoluzione. Quando l’ascidio della Darlingtonia, molto più che un semplice bicchiere aromatizzato in cui far affogare gli insetti, mette in atto la lunga serie dei propri accorgimenti ed incomparabili presupposti di condanna. A partire dal convenzionale bordo carnoso ricoperto da una serie di peli rivolti verso l’interno, come il bordo di una nassa per la cattura delle aragoste, che permettono alla vittima di entrare ma impediscono immediatamente di tornare indietro. Il che del resto potrebbe anche non bastare, visto come il tipico artropode di terra sia pur sempre dotato di un funzionale paio di ali. Ed è qui che mostra tutta la sua diabolica efficacia il secondo espediente posseduto dalla pianta, della matrice di finestre traslucide incorporate nella struttura dell’opercolo o coperchio soprastante, che in questo modo attrae il ronzante pasto verso le false vie di fuga evidenziate dalla potente luce del sole, finché stancandosi un poco alla volta, non può far altro che arrendersi all’evidenza della propria disperazione. E scivolare lentamente, un po’ alla volta, fino al fondo della foglia a forma d’imbuto, dove annegherà ben presto nei fluidi generati dalla pianta grazie all’umidità spostata verso l’alto dalle sue radici.
Tale metodologia di nutrimento, lungamente attribuita alla collaborazione di microrganismi simbiotici fino alla coerente scoperta di enzimi acidi prodotti dalla pianta stessa, prosegue quindi fino all’ultimo periodo estivo, quando l’arrivo dei primi freddi costringe la Darlingtonia ad adottare una strategia differente. Con l’appassimento pressoché totale delle sue strutture a forma di calice, lasciando soltanto il fusto centrale al fine di risparmiare le energie, da cui tornerà a ricostruire il resto della propria forma al sopraggiungere della successiva primavera. E tutto questo assieme all’altrettanto notevole creazione, del tutto imprescindibile, del proprio fiore dai petali e sepali cadenti verso il basso, di una colorazione alternativamente rossa e verde, egualmente capace di autoimpollinarsi o inviare il proprio materiale genetico ad una compagna, grazie alla generosa collaborazione di varie tipologie d’insetti impollinatori. Al che sorge la spontanea domanda, se la pianta si nutre delle stesse creature che dovranno occuparsi di agevolarne il processo riproduttivo, di come, esattamente, essa possa garantirne l’esistenza in quantità tale da preservare un’ecologia per se abbastanza vantaggiosa, piuttosto che operare lo sterminio dei suoi stessi alleati. Ed è proprio qui che potrebbe entrare in gioco, secondo uno studio pubblicato nel 2016 dal botanico David W. Armitage, la funzione primaria della caratteristica “lingua” situata al di sotto del calice, in realtà una sorta di piattaforma sicura ove si concentra il nettare costantemente emesso dalla viola cobra, permettendo agli insetti che ne riconoscono il segreto di nutrirsene volando almeno un altro giorno per portare a termine la propria missione. Il che renderebbe i bersagli ideali della trappola soltanto degli esemplari impreparati o poco accorti, perciò già condannati dalle dure leggi dell’impietoso consorzio naturale immanente.

Molto difficile da coltivare artificialmente, a causa delle necessità altamente specifiche del proprio ambiente di crescita, la viola cobra riesce d’altra parte a replicarsi senza limiti nei propri ambienti di provenienza. Come questo sito in Oregon, che ne risulta letteralmente ricoperto assieme ad un tappeto di Drosophyllum appiccicose (e perciò possiamo tranquillamente immaginare, quasi del tutto privo di entità ronzanti…)

Il timore nei confronti delle piante, nello schema generale delle cose, non costituisce un fattore fondante delle nostre inclinazioni ereditate, in funzione dei processi operativi e lo stile di vita messo in atto dai remoti antenati dell’attuale società parlante. Il che ha permesso, nel trascorrere dei millenni, a molte specie di quel regno di stabilire relazioni reciprocamente vantaggiose, grazie alla produzione di tesori e regalìe perfettamente commestibili, officinali ed utili all’industria, fatta eccezione per taluni esempi vegetali che hanno scelto vie del tutto alternative e crudelmente divergenti.
Pur non essendo in genere velenose, dunque, le piante carnivore costituiscono un esempio di quel mondo, in cui ognuno deve fare il possibile per ottimizzare le limitate risorse di cui dispone, spesso a discapito di entità situate più lontano dal sostanziale vertice dell’alta piramide alimentare. Geometria platonica che costituisce il simbolo di un’ecologia universalmente replicata, per lo meno nei diversi ambienti di cui abbiamo fin ad oggi un qualche tipo di conoscenza. In cui una semplice piantina di palude, contrariamente alle aspettative, può talvolta dominare le spropositate moltitudini che strisciano, camminano e spiccano il volo tra le luci ed ombre dell’acquitrino. Come la subdola presenza di una serpe, perennemente pronta a ghermire l’inconsapevole piccolo mammifero delle praterie.

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