Il comportamento asociale del mini-cervo con le zampe più sottili di un ragno

Il muso pulsante, le orecchie tonde puntate verso l’alto, gli occhi tondeggianti spalancati ad osservare quietamente l’orizzonte. Per qualche secondo, sufficiente ad identificare la sfuggente gobba e la testa cuneiforme dell’intruso, che sporgevano di poco sopra il debole declivio oltre la macchia di banani sul confine dei campi. Un breve sguardo, seguìto da una piroetta all’indirizzo della sua compagna di qualche settimana, bastò al piccolo mammifero per chiarire la sua posizione: “È una questione di rispetto, capisci? Questo territorio è appartenuto a mio padre, ed ancor prima suo padre e il padre di suo…” (Pare che taluni piccoli ungulati, talvolta, possano alquanto ripetitivi nei loro discorsi) Quindi scalpitando con aspettativa simile ad un rullo di tamburi tra lo strato di foglie ai limiti del sottobosco, il cervo-topo dalla schiena maculata cominciò ad avanzare zig-zagando, certo di riuscire in questo modo a giudicare la distanza di quell’ospite indesiderato. Una, due, tre volte fece la spola orientandosi col sole prossimo al tramonto, quando la disposizione prospettica del territorio gli permise, finalmente, di scrutare negli occhi di colui che aveva osato praticare il più terribile dei tabù: lo sconfinamento. L’avversario lo aspettava con la testa bassa, la bocca semi-aperta a masticare quello che sembrava essere una foglia già piuttosto malmessa per l’effetto del recente temporale estivo. Dopo un attimo in cui il tempo sembrò restare fermo, con i due intenti a scrutarsi da vicino nel più assoluto stato d’immobilità, l’avversario provenuto non si sa da dove spalancò del tutto la mandibola prognata, rivelando con palese orgoglio le sue temibili armi: un paio di pugnali d’avorio non più lunghi dell’ultima falange di un dito mignolo umano. Ma più che sufficienti a infliggere ferite quando serrati con forza sul dorso del nemico di turno. “Poco importa” pensò il padrone di casa. E dopo aver fatto lo stesso, iniziò a caricare, mirando con la luce della luna rimasta ormai ad illuminare pallida la sua missione. La sua natura era, d’altra parte, era quella di un essere del tutto solitario. E nessuno, in alcun caso, avrebbe mai potuto penetrare senza invito oltre le mura invisibili della sua vasta magione…
Tragulidi o traguli, compatti ruminanti, artiodattili dalla grandezza sotto-dimensionata, jarini pandi in lingua telugu, che significa cervo-maiale. Sarukuman in tamil, ovvero “cerbiatti del mucchietto di foglie”. O più comunemente definiti dalla comunità internazionale come “caprette” usando il termine francese, ovvero chevrotain. Quel tipo di animali che tendono ad essere ignorati dalle moltitudini, ed invero in parte anche dai naturalisti e biologi, semplicemente perché vivono ai margini del consorzio umano, senza particolari aspetti giudicati interessanti nel proprio stile di vita o comportamentale. Essendo a tutti gli effetti dei normali ruminanti, fatta eccezione per la massa corporea raramente capace, negli esemplari più imponenti, di superare quella di un barboncino frisé

Tenere queste creature all’interno di uno zoo o altra struttura recintata tende ad essere piuttosto complesso, sebbene sia possibile abituarli almeno in parte alla convivenza. I loro confronti “armati”, se non altro, raramente portano a serie conseguenze, più di qualche morso e l’occasionale escoriazione.

Di appartenenti a questa distintiva famiglia esistono, al conteggio attuale, esattamente 10 specie, suddivise in tre generi distribuiti tra India, Pakistan, Thailandia ed Indonesia. Tra cui quello che costituisce il più piccolo ungulato al mondo, il Tragulus javanicus delle isole Sunda, dal peso massimo di 1-2 Kg. Ed un’altra particolare varietà (Hyemoschus aquaticus) che rappresenta in media la più imponente essendo in grado di raggiungere anche i 10-12 Kg, concentrata unicamente nel territorio centrale del continente africano, tra la Sierra Leone e l’Uganda. Siamo di fronte, d’altra parte, a un tipo di creatura notevolmente adattabile grazie allo stile di vita principalmente erbivoro, il comportamento circospetto a la chiara (giustificata) diffidenza nei confronti di qualsiasi altro essere vivente. Potendo fare affidamento sulle uniche strategie difensive di mimetizzarsi, appiattendosi tra l’erba, o scattare via sfruttando i muscoli delle proprie zampe apparentemente fragili e sottili in realtà perfettamente capaci di veicolare un corpo tanto piccolo verso vette inaspettate di agilità e resilienza. Primariamente concentrati in zone dalla vegetazione piuttosto pesante, dove scorre un fiume, torrente o con altre fonti d’acqua a disposizione, gli chevrotain sono creature per lo più crepuscolari, non avendo preferenza per le ore diurne né quelle dall’oscurità maggiore, ma piuttosto muovendosi attraverso il confine tra quei due mondi, mentre masticano assiduamente le loro fonti di cibo poco nutrienti, che dovranno perciò passare all’interno di tre stomaci distinti (rispetto ai quattro posseduti normalmente dai loro cugini più grandi). Lievemente diverso il caso del micro-cervo cosiddetto acquatico, che spostandosi sott’acqua con l’agilità di un ippopotamo, è solito catturare occasionalmente anche dei piccoli pesci, molluschi ed altri animali acquatici al fine d’integrare la propria dieta. Prevedibilmente dotati di un eccellente senso dell’olfatto, gli appartenenti a questa famiglia sono soliti farne uso non soltanto allo scopo di percepire l’avvicinamento di un possibile nemico, ma per marcare gli specifici confini del proprio territorio, grazie all’uso di una ghiandola intermandibolare dal funzionamento simile a quella sub-orbitale di molte specie di ungulati africani. Diversamente dalla creatura ecologicamente situata in una nicchia simile del dik dik (gen. Madoqua) o mini-antilope dell’Africa orientale, lo chevrotain d’acqua può tuttavia fare affidamento su un altro valido approccio alla salvezza se minacciato: quello di tuffarsi in acqua, restando senza respirare fino ad un massimo di 3-4 minuti. Generalmente abbastanza, per riuscire a sfuggire allo sguardo attento del rapace o altro predatore di turno.
Inclini ad accoppiarsi soltanto una volta l’anno, i cervi topo partoriscono quindi un singolo cucciolo senza l’apporto di alcun tipo di tana. Il nuovo nato, d’altronde, come avviene per la stragrande maggioranza dei cervi, risulta capace di reggersi in piedi e correre agevolmente nel giro di appena mezz’ora, benché il raggiungimento dell’indipendenza tenda a richiedere in genere un periodo minimo di 5-10 mesi, in base alla specie. Al trascorrere del quale, come costituisce loro prerogativa imprescindibile e indipendentemente dal sesso d’appartenenza, l’animale inizierà a individuare una zona privata di 13-24 ettari, letteralmente sproporzionata rispetto alle sue dimensioni contenute, che difenderà strenuamente facendo uso della dotazione bellicosa dei suoi canini vampireschi, particolarmente sviluppati nei maschi, forse per compensare una dimensione in media più ridotta del sesso opposto.

L’eterna battaglia tra lo chevrotain d’acqua e l’aquila crestata africana (Morphnus guianensis) costituisce l’epico argomento di questo lievemente sfocato, benché notevole documentario del National Geographic statunitense. Impossibile non fare il tifo per il più debole, sebbene la posta in gioco sia la stessa per entrambi: sopravvivere un altro giorno.

Con la loro disposizione naturalmente sporadica a causa della poca inclinazione alla convivenza, gli chevrotain tendono perciò ad essere considerati un tipo di creatura piuttosto rara, sebbene nessun ente internazionale abbia fatto più che inserirne preventivamente una specie o due sulle sue liste, in assenza di un conteggio vero e proprio degli esemplari rimasti. Ciò detto, la spietata caccia tradizionale che ne viene fatta sia in India che in Africa lascia intendere una probabile riduzione progressiva dei loro numeri complessivi, nonostante l’alta considerazione in cui simili creature vengono tenute in alcune delle culture locali. Vedi il ciclo delle storie, molto note a tutti i bambini della Malesia e dell’Indonesia, del personaggio mitologico e fiabesco di Sang Kancil, un cerbiatto dei boschi che in tempi lontani era solito trarre in inganno creature molto più forti e pericolose di lui. Tra cui il cane da guardia di un agricoltore umano, che convinse a fare a cambio con la gabbia in cui era stato intrappolato “Perché al mattino sarebbe diventato un principe” o gli affamati coccodrilli, che fece disporre tutti in fila come un ponte per sfuggire da un isolotto fluviale, concedendogli in cambio una resa destinata a trasformarsi in una fuga precipitosa verso l’entroterra collinoso. Perché nessuno può mettere il piccolino in un angolo, meno che mai coloro che non hanno combattuto le sue battaglie, né possiedono la stessa indole temprata nel susseguirsi d’innumerevoli asociali morsi all’indirizzo di ospiti venuti da “fuori”. Una strategia che spesso riesce a funzionare, eppure non sempre. Ed è proprio questa la ragione per cui sarebbe ottimo, persino consigliabile, iniziare a volgere la nostra mente ed attenzione all’indirizzo di coloro che potrebbero sfruttare a pieno titolo il nostro aiuto.

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