“La guerra… La guerra non cambia mai.” Afferma la voce fuori campo, con il sottofondo di una musica nostalgica dai ritmi Jazz, il campo lungo della telecamera che si avvicina gradualmente al profilo riconoscibile di una città. Che ben presto può essere identificata come Pittsburgh, in Pennsylvania, simbolo sopravvissuto almeno in parte alla fittizia apocalisse della serie videoludica Fallout. Nell’immoto panorama, ove neppure piccoli animali o uccelli paiono aggirarsi tra le case del caratteristico vicinato statunitense, almeno un singolo elemento, tuttavia, appare immutato tra il fantastico e il reale, la speculazione degli artisti ed il soggetto fotografico di una particolare tipologia di turisti: è un colossale serbatoio piriforme di metallo ricoperto dalla ruggine, adagiato sopra una catasta di mattoni malmessi in mezzo ai vialetti erbosi delle abitazioni. Sul suo fianco un tempo scintillante, ora rivolto al cielo, campeggia con palese orgoglio l’imponente logo della compagnia elettrica Westinghouse. Famosa negli Stati Uniti, oltre che per oltre un secolo e mezzo di onorato servizio, a causa dell’accesa rivalità nei confronti della General Electric sotto l’egida dell’intransigente Thomas Edison all’inizio del XIX secolo, in quella che sarebbe passata alla storia come “guerra della corrente”. Ciò che però non tutti sanno, soprattutto all’estero, è che dopo aver perorato per anni la causa ed infine prevalso, grazie all’evidenza, con l’idea dell’elettricità trasmessa tramite il flusso alternato (AC) rispetto a quella diretta (DC) preferita dal loro avversario, la compagnia fondata da George Westinghouse nell’ormai remoto 1886 ebbe l’opportunità ed il desiderio di fare da apripista in un altro modo di approcciarsi alla generazione di quel fluido che alimenta l’epoca contemporanea: sto parlando del processo per la creazione dell’energia atomica o nucleare, diversi anni prima che fosse possibile anche soltanto garantire l’induzione intenzionale del decadimento radioattivo, figuriamoci il suo sfruttamento controllato da parte dell’umanità in attesa. Un processo, questo, ricercato tramite una vasta serie di ricerche ed esperimenti, all’apice del quale si sarebbe collocato, a partire dal 1937, l’abnorme edificio di Forest Hills.
Per comprendere il contesto di una simile struttura occorre dunque figurarsi lo scenario di quell’epoca, antecedente di svariati anni al cambio di paradigma indotto dall’equipe di Enrico Fermi e gli altri ricercatori agli albori dell’Era Atomica, quando ogni passo doveva essere compiuto inizialmente in via sperimentale, poiché semplicemente non si disponeva di un catalogo di cause ed effetti attentamente calibrati nell’interesse di ottenere il risultato finale. In tale ambito si muoveva il Prof. Dr. William E. Schoupp, esimio fisico teorico coinvolto dall’azienda per costruire qualcosa d’inusitato: il primo generatore energetico di Van de Graaff su scala industriale. Ovvero in altri termini, la versione su scala ingrandita dell’oggetto sperimentale inventato meno di una decade prima dal collega dell’Università di Princeton Robert J. Van de Graaff, proprio al fine di analizzare il comportamento delle particelle inosservabili all’interno di una situazione sotto l’assoluto controllo della scienza. Consistente, essenzialmente, nella rapida rotazione di un nastro situato verticalmente all’interno di un cilindro e fin dentro una grande sfera di metallo, ove si sarebbe concentrato un significativo potenziale di elettricità statica. Un meccanismo che in molti associano unicamente alla tipica esperienza “scientifica” di far poggiare le mani sopra la suddetta calotta ad un soggetto consenziente, sorridendo quindi assieme a lui per il sollevarsi spontaneo dei suoi capelli. Benché come spesso capiti, la stessa cosa trasportata su una scala superiore può ottenere risultati molto più notevoli, e potenzialmente pericolosi, di questo…
Costruito sulla base di un principio non così diverso da quello sin qui descritto, il generatore di Forest Hills avrebbe quindi preso forma a tempo di record una volta ottenuti i relativi permessi dal governo statunitense, nell’interesse di agevolare quello che veniva visto come il passo successivo nell’egemonia tecnologica della nazione. Il dispositivo, alto 20 metri e costruito primariamente nel migliore acciaio di quell’area geografica un tempo produttiva, che oggi è stata soprannominata come la Rust Belt (“Cintura della Ruggine”… Un nome stranamente rilevante per la nostra trattazione odierna) avrebbe costituito in effetti un significativo esempio di quelli che potremmo definire come i primi acceleratori di particelle nella storia della fisica applicata. Tanto che, in assenza di un simile termine per definirlo, l’apparato comparve in un famoso articolo dell’eterna rivista Popular Mechanics, accompagnato dalla definizione di Atom Smasher – Il Distruttore di Atomi. Che appare nella realtà soltanto parzialmente corretta, visto come il punto forte delle macchine di Van de Graaf fosse proprio il flusso continuo e cadenzato con cui riuscivano a disgregare il mattone basico della materia, separando le cariche positive e negative e agevolando l’accumulo di potenziale finalizzato ad un’ampia varietà di esperimenti. In quello che potremmo definire, nel caso della Westinghouse, come un tipo di dispositivo cosiddetto “in tandem” per la maniera in cui non soltanto dei fondamentali nastri era prevista una coppia egualmente funzionale allo scopo, ma essi circondavano un tubo centrale trasparente, occupato da una vasta quantità di atomi bersaglio costituiti nella maggior parte delle volte da una concentrazione di fluoro. Il che avrebbe permesso di deviare quantità rilevanti dei precedentemente inconoscibili protoni ed elettroni, prendendo nota del loro effetto nei confronti della materia, consistente nella generazione collaterale di un’emissione energetica definita con il termine di raggi gamma. Della serie senz’altro vasta di prove sperimentali e ricerche condotte a Forest Hills nei primi anni non sappiamo tantissimo, sebbene resti noto il traguardo maggiormente significativo della scoperta del processo spontaneo di fotofissione degli atomi di uranio e torio, formalmente utile al progresso collettivo del mondo scientifico nordamericano verso la prima realizzazione concreta della fissione nucleare. Al punto che allo scoppio successivo della seconda guerra mondiale, e con l’inizio purtroppo inevitabile del Progetto Manhattan, almeno una parte dello staff addetto all’acceleratore della Westinghouse sarebbe stato chiamato a partecipare. Mentre il dispositivo titolare, con i suoi 5 MeV (Mega-Elettronvolt) di potenza, continuava ancora ad essere una delle installazioni più avanzate al mondo per la sua finalità d’implementazione originale. Un primato destinato a durare ancora qualche anno, fino al progressivo perfezionamento degli acceleratori circolari o ciclotroni inventati negli anni ’30 da Ernest O. Lawrence dell’Università di Berkeley, capaci di far raggiungere alle particelle velocità relativistiche grazie alla forza centrifuga, con conseguente risparmio di tempo e risorse per i loro utilizzatori. Così dismesso e in breve tempo abbandonato, lo “spacca-atomi” si sarebbe ridotto a mero arredamento urbano di dubbio gusto e funzione, per svariate decadi quello che potremmo definire come uno degli oggetti maggiormente insoliti che fosse possibile vedere dalla pacifica finestra della propria sala da pranzo.
Progressivamente sempre più instabile e decrepito, l’acceleratore sarebbe quindi rimasto in bilico sui suoi supporti fino all’anno 2012, quando successivamente all’acquisto del lotto di terra per scopi di sviluppo architettonico da parte della P&L Investments, il nuovo proprietario Gary Silversmith avrebbe dato istruzioni di tirarlo giù preventivamente, avendo cura di non danneggiarlo ulteriormente. Stimolando le immediate proteste dei vicini affezionati all’ormai vetusta e significativa presenza, sebbene con l’intento dichiarato di preservare, ed in qualche restaurare all’antico splendore, questo importante benché poco conosciuto pezzo di storia americana. Ogni ipotesi di spostamento in un museo o la costruzione di uno attorno all’inamovibile orpello, come ipotizzato da una commissione scolastica locale, si sarebbe d’altra parte scontrata con la realtà dei costi proibitivi, con conseguente spostamento in avanti della data d’inizio dei lavori.
Il che ci porta al giorno d’oggi e la surreale immagine post-apocalittica di cui sopra, in cui l’oggetto del mistero ancora giace, a monito insistente dei sogni e gli obiettivi infranti di chiunque osi pensare di lasciare un qualche tipo d’eredità materialistica al mondo. Poiché tutto scorre in una vasta quantità di modi e ciò si applica, in maniera equivalente, alla corsa disordinata delle particelle che costituiscono la Natura, così come per i flussi occasionalmente convergenti della nostra Storia stessa. Espressa, e forse contenuta in un’assoluta dichiarazione preventiva d’intenti, che però essendo ancor più piccola ed inafferrabile di un singolo protone, ancora riesce a eludere i sedicenti profeti delle interconnessioni presenti e future degli eventi. Fino… A quando?