Tagliategli la testa! Come suona la più sincopata invettiva dell’opera di Pechino nel mondo moderno

Quando ci si trova nella necessità di esprimere un concetto complicato all’interno di un testo musicale, al giorno d’oggi è particolarmente difficile superare l’efficienza rappresentata dal parlato rapido e la musica ritmata di un pezzo hip hop, enunciato alla massima rapidità consentita dall’apparato fonatorio umano. Forse per questo, la maggiore quantità dei pezzi di denuncia sociale o j’accuse nei confronti dell’autorità costituita rientrano nella categoria delle canzoni cosiddette parlate, prodotte da persone che hanno fatto del volume di parole al minuto un importante punto cardine della propria dialettica, sistematicamente deputata alla comunicazione di un fondamentale messaggio ai propri ascoltatori. Un’associazione di massima tanto forte nell’attuale cultura globalizzata, che il mondo di Internet non ha esitato un anno fa a ribattezzare questo pezzo dal notevole significato tradizionale, postato da qualcuno con intento semiserio su YouTube, come il “rap cinese” per eccellenza, accompagnato da commenti satirici di vario tipo a spese delle attuali contraddizioni ed idiosincrasie del più vasto paese dell’Estremo Oriente. Eppure il Ching Cheng Hanji (a.k.a. Il caso di Chen Shimei) è giunto a costituire negli ultimi due secoli un importante pilastro non soltanto della tecnica e teoria musicale a fondamento della cosiddetta Opera Cinese o di Pechino, forma teatrale celebre per i suoi costumi appariscenti e il trucco elaborato dei personaggi, ma soprattutto dei principi di legalità applicati ai potenti uomini politici di allora come adesso, troppo spesso esenti dal pagare per le conseguenze delle proprie immorali o crudeli scelte di vita. In tale accezione recitata, piuttosto che semplicemente pronunciata con intento di svago ed intrattenimento, al termine di una rappresentazione di circa due ore e mezza, come coronamento insperato e lieto fine (se così possiamo dire) del tragico dramma familiare di una donna ed i suoi due figli. Ad opera di niente meno che il supremo giudice Bao, personaggio leggendario che per molti secoli ha saputo personificare la giustizia che vince su tutto, sia nel mondo materiale che al cospetto di divinità e spiriti notturni capaci di vivere in eterno. Ma non di sfuggire alle sentenze elaborate da colui che soprannominavano il Draconico Disegno, all’interno della lunga serie di romanzi, novelle ed opere teatrali che costituivano il genere del Gong’an, o “racconto poliziesco” attestato fin dall’epoca della dinastia Yuan (1279 a seguire). Questo perché l’originale ed effettivamente vissuto Bao Zheng, due secoli prima di quella data, era stato un importante magistrato e prefetto alle dipendenze dell’Imperatore Rezong di Song, prima che il folklore popolare o le iperboli di storie lungamente ripetute facessero di lui una figura ultraterrena affine a quella dei potentissimi Immortali della tradizione taoista. Il che fa sorgere spontanea la domanda di cosa ci facesse, esattamente, un personaggio come questo in un corte di giustizia di epoca Qing nel XIX secolo d.C, intento a suggellare il fato di un suo collega di fronte alla consorte del sovrano e sua figlia, supremamente indisturbato da simili contrariate ed implacabili eminenze…

Interessante riesce ad essere l’interpretazione remixata del noto artista sudafricano ed attivista The Kiffness (al secolo David Scott) che utilizza forse l’esecuzione più celebre del brano per costruire un rispettoso ed orecchiabile elogio del cosiddetto “nonno cinese”.

Se osserviamo la progressione delle reinterpretazioni della Ching Cheng Hanji attraverso questi mesi nella sfera social e memetica di Internet, sarebbe quindi assai difficile non individuare al centro dell’intera faccenda l’informale esecuzione di Kang Wansheng, sommo maestro di quest’arte, nonché celebre per la propria disposizione talvolta faceta e divertente così evidentemente espressa nel video che più di ogni altro, forse inizialmente a sua insaputa, sembrerebbe averlo reso celebre nell’universo mediatico digitalizzato. Intitolato dai commentatori di Internet come il “Nonno giapponese” proprio per le circostanze insolite in cui il cantante veterano sembra insegnare a una bambina estremamente concentrata, probabilmente sua nipote, le parole di questo importante brano, declamandole con evidente perizia ed arrivando a recitare la gestualità e l’intento probatorio dell’infuriato giudice Bao. La storia dell’opera in questione, d’altra parte, costituisce un’infuocata critica ed annientamento moralizzatore del cognato stesso del sovrano, con al termine una spietata ed implacabile condanna a morte pronunciata nei suoi confronti. E se ciò dovesse sembrarvi esagerato, aspettate di sentire i crimini commessi dal principale antagonista della vicenda, proprio quel Chen Shimei che anni prima, trasferitosi nella capitale per sostenere gli esami di matrice confuciana ed abbandonando la sua stessa famiglia, si era classificato al primo posto come funzionario governativo ottenendo il favore del Figlio del Cielo in persona, da lui impiegato con successo per riuscire a sposare la sorella di quell’altissimo sovrano. Se non che anni dopo, a causa di una carestia particolarmente significativa, la moglie Qin Xianglian con i due figli piccoli si sarebbe recata alla sua ricerca come ultimo gesto disperato, giungendo a costituire un pericolo gravissimo per la vita che nel frattempo Chen era riuscito a costruirsi lontano da lei. Al che il crudele consorte, chiamando ai suoi doveri la fedele guardia del corpo Han Qi, diede a quest’ultimo il crudele compito di assassinare lei ed i suoi stessi eredi, totalmente noncurante di alcun senso di giustizia di fronte al Cielo, la Terra e l’Uomo. Segue quella che potremmo forse definire la scena culmine dell’intera vicenda, durante cui il guerriero onorevole Han Qi, giunto al cospetto della donna, le racconta immediatamente della crudeltà del marito e non potendo conciliare il proprio tradimento nei suoi confronti, si uccide usando la sua stessa spada, subito seguito dalla donna stessa, con il cuore infranto. Ed era questa, sostanzialmente, anche la conclusione tragica della vicenda, sia nel romanzo risalente al XVI secolo che nella versione musicale successiva di due secoli, intitolata per l’appunto “La leggenda di Qin Xianglian” e creata, si ritiene, da un autore che voleva screditare un suo vecchio collega agli esami di stato. Se non che si narra che un giorno, a causa della relativa brevità dell’opera e per soddisfare un pubblico particolarmente riottoso, un impresario decise di far tornare in scena un attore impiegato nella piéce antecedente in realtà ambientata quasi otto secoli prima, negli abiti immediatamente riconoscibili del formidabile giudice Bao: la barba lunga e nera, il cappello simbolo del suo spietato ufficio, il trucco con la mezzaluna sulla fronte che indicava la sua affinità col regno della notte, corrispondente secondo un popolare aneddoto alla cicatrice riportata quando era stato gettato in un pozzo da sua madre, a causa dell’estrema bruttezza.
Perciò il Ching Cheng Hanji, accusa elaborata e spaventosa nei confronti di un uomo malvagio, sarebbe stato come ogni migliore pezzo rap inizialmente creato a getto, nascendo dal bisogno di esprimere un senso di sdegno fondamentale e inalienabile. A supremo discapito ed indifferenza nei confronti delle immediatamente accorse consorte e l’Imperatrice madre in persona, dinnanzi a cui affermò con sdegno che se avesse dovuto pagare per la sua sentenza, avrebbe visto prima Chen pagare per i propri crimini, a costo di dover portare a compimento la sentenza di morte con le proprie stesse mani.

Ed eccola qui dunque, nella sua interezza, l’opera sulla triste vicenda culminante con il “rap cinese”, in realtà uno dei momenti più emozionanti e drammatici dell’intero canone narrativo di tale arte, così chiaramente in anticipo sul mondo moderno. Con tanto di sottotitoli, quindi, niente scuse!

“[La defunta] Qin Xianglian, di 32 anni, presenta una deplorazione nei confronti del Principe Consorte. Che ingannando sua maestà l’Imperatore, conducendolo in errore, ha infranto i propri voti di matrimonio diventando suo cognato. Tentando di assassinare la propria stessa moglie ed estinguere gli eredi, ha abbandonato la sua coscienza, ed ha portato tale donna a suicidarsi nel terreno di un tempio! Che l’accusa venga affissa sui portoni di ogni palazzo della capitale! E la mia ira possa abbattersi sopra il colpevole, senza possibilità di appello!” Quel che viene dopo è variabile in base alla versione dell’opera, sebbene nella maggior parte dei casi il giudice Bao riesca a portare a termine il suo proposito, impiegando una delle tre gigliottine portatili che avevano costituito uno dei suoi attributi più riconoscibili fin dall’epoca medievale: la prima con testa di cane, per punire gli uomini comuni; la seconda a forma di tigre, per i nobili; e la terza nella terribile guisa di un drago celeste, unica creatura considerata degna di punire i membri della famiglia imperiale.
Non che tale epico e cruento finale, purtroppo, figuri in alcun modo nelle perequazioni inesatte perpetrate dal pubblico memetico di Internet, alla costante ed implacabile ricerca di stereotipi su cui scherzare, dietro lo scudo impenetrabile della non-conoscenza. Il che non cambia in alcun modo il valore ritmico e coinvolgente di una sequenza cantata, così immediatamente riconoscibile, capace di varcare senza inciampi il grande canyon delle plurime generazioni.

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