Uno dei più iconici tra i macchinari, associato indissolubilmente al meridione statunitense, è la pompa del pozzo petrolifero con il suo movimento a stantuffo, che oscillando in alto e in basso agevola il sollevamento del prezioso fluido interiore del mondo. Bastava un tempo tuttavia spostarsi verso nord, come avviene anche per le creature viventi di questa Terra grazie al principio del gigantismo causato dal freddo, per scorgere la versione notevolmente sovradimensionata di una simile metallica “presenza”. Il tirannosauro raffrontato a un semplice tacchino, o diplodoco in proporzione all’odierna giraffa, il cui lungo collo si erse per più di 100 anni, gettando la sua ombra su di un popolo senz’altro grato di abitare al cospetto di una tale rigida presenza. O per esser più precise, due dozzine di esse, abbastanza da sancire il predominio dell’intera Cleveland sullo scenario un tempo imprevedibile del commercio di carbone proveniente dalle oscure gallerie del mondo. Un fluido vitale della nostra stessa civiltà odierna (ce ne sono parecchi) proprio perché occorrevano ed occorrono tutt’ora in media 770 Kg di quel materiale, per poter creare una singola tonnellata d’acciaio. Dal che la necessità di ottimizzare il più possibile, ogni singolo passaggio della filiera necessaria per condurre tale combustibile sostanza dal produttore, o estrattore che dir si voglia, fino all’azienda utilizzatrice finale. Come le gigantesche chiatte costruite unicamente per attraversare l’acqua limpida dei Grandi Laghi, Superiore, Michigan, Huron ed Erie, semplicemente troppo vaste da riuscire ad attraversare le chiuse in corrispondenza dei pochi affluenti sufficientemente larghi, e che proprio per questo non avrebbero mai visto il mare. Continuando solamente, per l’intero corso della loro vita operativa, a raccogliere copiose quantità di legno combustibile fossilizzato, soltanto per portarlo sulle sponde del miglior offerente. Il quale poteva essere chi lo pagava meglio, ma anche l’azienda operatrice di una situazione portuale maggiormente vantaggiosa, ovvero in cui il margine dei costi capaci di erodere il profitto fosse mantenuto il più possibile al di sotto della concorrenza. Il che era stato, fino dal principio del XIX secolo, uno dei princìpi operativi principali della città di Cleveland sulle rive dell’Erie, priva delle dirette linee ferroviarie di Toledo o l’ampia popolazione e fiorente industria di Detroit. Dove il mestiere di scaricatore non era un semplice momento di passaggio, bensì l’effettivo destino ultimo di una buona parte degli abitanti cittadini in età utile, causa l’enorme mole di lavoro e le paghe tutt’altro che insignificanti. Ma il costo del rimuovere il carbone dalla stiva di un’imbarcazione per il committente non variava poi così tanto da quello delle altre città citate, con un minimo stimato di 50 centesimi alla tonnellata attraverso il metodo tradizionale, imprescindibile da una gigantesca quantità di carriole. Il che presentava se non altro un funzionale margine di miglioramento, che iniziò ad essere inseguito a partire dal 1858 presso il molo della cittadina di Marquete sul Michigan, consistente in un ponte basculante simile all’asse di un’altalena, il quale poteva essere caricato un poco alla volta e trasformato in uno scivolo per il carbone fuoriuscito dalla stiva sottostante. Il che non avrebbe visto la città di Cleveland restare indifferente, con l’importazione direttamente da New York di uno dei primi esemplari del cosiddetto Brownhoist, l’invenzione di Alexander E. Brown configurata come una sorta di vagone ferroviario sopraelevato, capace di svolgere con superiore efficienza lo stesso tipo di lavoro. Le carriole, ben presto furono rimpiazzate da apposite “vasche” su ruote, che tuttavia continuavano a richiedere significativi interventi da parte di mano umane, per essere riempite e svuotate conseguentemente al compimento del proprio circuito operativo. Il costo dello scarico del carbone era a questo punto pari a 18 centesimi alla tonnellata e sembrava che nulla più potesse essere fatto per continuare la sua corsa al ribasso. Almeno finché un giovane ingegnere di queste stesse rive non giunse dalla cittadina di Conneaut alla fine del XIX secolo. Accompagnato da uno straordinario sogno, e il fecondo fluido di un’imponente idea…
George Hulett era nato nel 1846 da una coppia di pionieri immigrati nel freddo nord a partire dal Vermont. Per i primi 35 anni della sua vita aveva quindi assistito i genitori con l’amministrazione di un emporio locale a Unionville, fino a quando, raggiunta l’età della maturità e laureatosi presso l’istituto Humiston di Cleveland, cominciò a frequentare l’ufficio brevetti a partire dal 1887. Le cui registrazioni mostrano almeno due dozzine di attestati conseguiti per un’ampia serie d’invenzioni, primariamente interconnesse all’ambito delle materie prime, con particolare attenzione ai sistemi di sollevamento e spostamento del carico delle navi. Costruitosi una certa reputazione per l’eccentricità non insolita tra la genìa degli inventori, Hulett riuscì quindi a conseguire i fondi necessari a costruire la sua prima grande macchina, funzionante rigorosamente a vapore benché in seguito sarebbe stata usata l’elettricità, presso la sede della Webster, Camp, & Lane Company di Conneaut. Dietro la clausola estremamente impietosa che se non avesse dovuto funzionare a dovere, non soltanto lui avrebbe dovuto risarcirli ma anche rimuoverla a sue spese. L’apparato, che garantiva nominalmente una processazione di 275 tonnellate di carbone l’ora, si dimostrò non soltanto di mantenere tale cifra ma persino eccederla agevolmente, man mano che gli operatori imparavano ad utilizzarlo efficientemente. Un Hulett Unloader, come avrebbe preso ben presto ad essere ufficiosamente definito, si presentava quindi come un’imponente gru navale di altezza variabile tra i 30 e 20 metri, montata su una coppia di binari lunghi qualche decina di metri costruiti in cima ad altrettanti muri di cemento, che si estendevano come trampolini fin sopra lo spazio occupato dalla nave attraccata al molo antistante. L’apparato in questione, quindi, abbassandosi fino alla stiva della stessa, avrebbe pescato da questa mediante l’utilizzo di una testa a tenaglia dotata di secchio, con spazio integrato per una quantità variabile tra le 10 e le 22 tonnellate di carbone. In maniera essenzialmente “automatica” per lo meno nella parte iniziale del suo compito, sebbene mano a mano che la stiva si svuotava si rendesse necessario l’intervento di uomini con badili al fine di radunare fino all’ultimo chilogrammo di materiale. Previa esecuzione reiterata del tragitto fino al deposito ferroviario antistante, ove il contenuto della pinza sarebbe stato rovesciato in rapida sequenza su una serie di vagoni adibiti appositamente a tale fine. Il tutto con la partecipazione, oltre all’equipaggio della nave di turno, di tre soli operatori, due nel corpo inferiore della macchina rispettivamente incaricati di guidarne gli spostamenti e controllare il livello dell’olio nel meccanismo ed un terzo, incredibilmente, addetto alla manovra della pinza e situato esattamente al di sopra di questa, in una cabina integrata in quella che potremmo definire la testa del magnifico brontosauro d’acciaio.
In breve tempo la macchina di Hulett diventò una vera e propria attrazione locale, non soltanto per la popolazione del posto ma anche e soprattutto per i capi delle aziende concorrenti della Webster, accorsi ad ammirarne l’efficienza e che non tardarono ad ordinare una versione equivalente da piazzare all’interno delle loro sedi, disseminate lungo l’intero perimetro del lago Erie e non solo. È stimato dunque come una quantità di 75 scaricatori vennero costruiti tra il 1898 e il 1960 principalmente nella regione dei Grandi Laghi, fatta eccezione per quello edificato a New York al fine dichiarato, essenzialmente, di radunare ed imbarcare le massicce quantità di spazzatura cittadina. Le stesse chiatte vennero rivisitate e modificate al fine di agevolare al meglio il funzionamento di tale meccanismo, mentre un letterale cambio di paradigma portò inevitabilmente alla perdita del posto di lavoro da parte d’innumerevoli addetti portuali di ogni centro urbano coinvolto nel trasferimento del carbone. E questo fu soltanto l’inizio di un trend che col proseguire degli anni, non avrebbe mai cessato di proseguire…
La città di Cleveland, dove Hulett lavorava e continuò a trascorrere una buona parte della propria vita, si trovò ad ampliare la superfice dei suoi moli al fine di accogliere il volume di affari ben più che triplicato, con un nuovo punto d’approdo più spazioso al di fuori dei canali precedentemente scavati dai fondatori della città. E buona parte di ciò grazie al successo dell’azienda Cleveland & Pittsburgh Ore, rivelatosi dotata del capitale necessario all’acquisto ed installazione di ben quattro macchine scaricatrici, capaci di lavorare in tandem su altrettanti scafi antistanti. In questo specifico luogo, il tempo necessario allo svuotamento di una singola stiva passò da circa una settimana a poche ore, mentre il costo per tonnellata si abbassò a soli 5 centesimi, incrementando ulteriormente i profitti. Il che permise all’inventore della macchina, come potrete facilmente immaginare, di vivere negli agi fino all’epoca della sua dipartita, avvenuta nel 1923 a Daytona, dopo essersi trasformato in un’autorità da consultare ed imitare nel suo specifico segmento operativo su scala pressoché globale. Ma le costruzioni del suo progetto avrebbero continuato per ulteriori 40 anni, causando l’anomalia storica di un dispositivo tecnologico rivelatosi talmente efficace da restare insuperato per un periodo complessivamente prossimo ad un secolo intero.
Tutto questo finché la situazione non cambiò ulteriormente, con la progressiva implementazione di sistemi di scarico integrati nelle stesse chiatte dei Grandi Laghi, consistenti di lunghi nastri trasportatori ed apparati sollevamento installati sui loro ponti. Per cui i grandi dinosauri di Cleveland si estinsero, e vennero progressivamente demoliti, non perché erano stati superati in quanto tali. Bensì per l’eliminazione stessa dal mondo di quello specifico approccio al problema evolutivo. Senza nessun tipo di pietà come del resto ci si aspetterebbe dal consorzio umano. Sebbene aleggi ormai da qualche anno la teoria per costruire una sorta di parco commemorativo ai margini del porto, ricavato da alcuni componenti dismessi delle macchine fatte a pezzi circa una generazione e mezza fa. Ma soluzioni simili, lo sappiamo fin troppo bene, non producono carbone. E cosa c’è di più importante, al conteggio degli anni (e dei profitti) attuali?