Siamo soliti considerare il Giappone un paese omogeneo, per cultura, credenze e i sistemi delle sue sovrastrutture sociali. Ma c’è stato un tempo, particolarmente remoto, in cui ciascun clan o tribù di questo popolo era in costante guerra con le altre, e i loro stessi Dei scendevano sul campo di battaglia. O per lo meno i più diretti discendenti di questi ultimi, nella maniera in seguito caratteristica della linea di sangue del clan Yamato, capace di far risalire il proprio lignaggio alla somma Amaterasu, personificazione del sole che sorgeva ogni giorno sopra quelle terre devastate dai conflitti degli umani. Quindi al momento del decesso, questi condottieri e privilegiati custodi dell’anima universale del mondo, venivano sepolti con grandi onori, assieme ai simboli del loro ruolo sacro: la spada, lo specchio ed il gioiello. All’interno di strutture che avrebbero in seguito preso il nome di kofun (古墳 – Letteralmente: antichi tumuli) convenzionalmente esteso anche all’intero periodo storico in oggetto, situato tra il 250 ed il 538 d.C. Alcuni maestosi, molti straordinariamente interessanti ed altri, semplicemente, parecchio insoliti e/o bizzarri. Verso la fine di questo paio di secoli eccezionalmente rilevanti quindi, mentre il concetto di un potere centralizzato iniziava a prendere forma, gli enormi complessi dinastici e i palazzi del potere costruiti nella regione circostante l’odierno villaggio di Asuka, nella prefettura di Nara, ci avrebbero permesso di collocare a posteriori lo scettro del potere nelle mani dell’influente clan dei Soga, in gran responsabile dell’importazione ed accettazione della religione buddhista sopra il sacro suolo dell’arcipelago considerato già infuso di una particolare divinità inerente. A questo periodo risale probabilmente il tumulo massiccio dell’Ishibutai Kofun, considerato convenzionalmente la tomba dell’importante uomo politico e statista Soga no Umako (551-626) responsabile di aver fatto costruire grandi templi appena un secolo dopo che l’Imperatore Kinmei aveva fatto gettare in un lago la magnifica statua di Buddha inviata in dono dal Re della Corea. Così come databile risulta essere, sebbene in modo altrettanto approssimativo, un altro tipo di costrutto monolitico del peso stimato di 700 tonnellate situato a poca distanza, dell’oggetto in questione, il cui nome tramandato si configura come Masuda Iwafune (益田岩船) ovvero Nave di Pietra della regione di Masuda; la cui natura, funzione, autori, modalità di costruzione e spostamento, significato religioso ed invero stessa ragion d’essere risultano da lungo tempo il territorio di una pletora d’ipotesi contrastanti. Un macigno intagliato dal granito dioritico a base di quarzo con alcune caratteristiche ed accorgimenti decisamente insoliti, tanto da aver scomodato in più occasioni i sedicenti seguaci delle cosiddette ipotesi extra-terrestri. Anche in funzione della sua unicità, nell’intero apprezzabile contesto di appartenenza…
Capace di presentarsi come un unico blocco dalla sommità arrotondata dell’altezza di 4,7 metri per 8 di larghezza e 11 di lunghezza, la roccia Iwafune si trova a poche centinaia di metri dalla stazione ferroviaria di Okadera, essendo giunta a costituire in funzione di questo un’importante meta turistica per studenti e curiosi. Così come lo era stato, a quanto ci dicono le cronache, già nel corso dell’intera epoca Edo (1603-1868) il lungo periodo di pace imposto dal clan samurai dei Tokugawa, durante cui le arti e la cultura giapponesi avrebbero raggiunto le loro vette maggiormente elevate. Ad attirare inizialmente lo sguardo quindi, mentre ci si avvicina attraversando il fitto canneto del bosco circostante, sono i due grandi fori quadrati intagliati nella curvatura superiore della pietra dalla forma trapezoidale, non dissimili da ipotetici spazi dedicati agli occupanti di una grande canoa. Il che potrebbe aver contribuito, assieme alla forma relativamente idrodinamica, al soprannome nautico dell’antico e misterioso punto di riferimento. Non meno intriganti e funzionali alla formulazione di un’ipotesi, le linee perpendicolari a guisa di un reticolato presenti su entrambi i lati della pietra, considerati dagli esperti come un possibile effetto collaterale del metodo largamente misterioso impiegato per tagliarla. Sebbene alcuni, tra i visitatori, siano inclini a intravedere in esse la possibile presenza di una o più facce appena abbozzate, altrettanto possibilmente una diretta conseguenza dell’umana propensione alla pareidolia. Tanto enorme da essere praticamente inamovibile, la pietra viene oggi giudicata come originaria fin dai tempi umani di questo preciso luogo, in funzione del tipico fenomeno di spostamento geologico identificato come il macigno errante.
Per poter procedere a una sua possibile contestualizzazione, dunque, passiamo ad alcune delle teorie formulate in merito al suo possibile significato originario. A partire da quella originariamente facente parte delle cronache pre-moderne, incline a considerarla il possibile basamento di un monumento in seguito andato perduto, creato nell’822 d.C. per commemorare la creazione dello stagno artificiale di Masuda (da cui il nome, M. Iwafune) mediante la costituzione della grande stele recante una composizione in versi dell’importante monaco Kukai alias Kobo Daishi, fondatore pochi anni prima della corrente buddhista dello Shingon. Ipotesi in realtà priva di basi pratiche, così come quella secondo cui la pietra dovesse essere una sorta di osservatorio astronomico, grazie a pilastri piantati originariamente nei suoi due fori, utile a determinare il periodo del calendario e conseguente momento esatto in cui procedere alla semina dell’annuale raccolto. Altrettanto problematica l’idea che potesse trattarsi di una tomba fatta e finita, data l’assoluta mancanza di resti umani o tesori commemorativi sepolti nelle sue immediate vicinanze. Mentre risulta più probabile, ed in funzione di ciò l’idea maggiormente accreditata, la nozione secondo cui la pietra Iwafune avrebbe potuto costituire l’inizio del progetto per la costruzione di un Kofun, successivamente abbandonato a causa di una crepa rilevata lungo il suo lato più lungo. Lasciando, come spesso è capitato nella storia, questa creazione incompleta a sollevare multipli interrogativi nell’analisi a posteriori compiuta dagli archeologi. Rassegnati, ormai da tempo, alla necessità di conciliare simili contraddizioni.
Collocata in un’area come quella di Asuka, inerentemente ricca di strutture monolitiche di ogni foggia e dimensione, la nave di Masuda spicca ad ogni modo per la foggia insolita e le dimensioni impressionanti, superiori a quelle di qualsiasi altro esempio nei più immediati dintorni. Benché un possibile collegamento venga generalmente individuato con la non meno misteriosa Ishi no Hoden (石の宝殿 – Pietra-santuario) macigno scolpito a forma di parallelepipedo con un’estrusione sul retro, non dissimile dalla corrispondente parte di un vecchio televisore a tubo catodico, soprattutto per la presenza di segni di taglio di natura simile sui fianchi. Nonché la mancanza di una funzione essenzialmente ed immediatamente desumibile dalla propria forma.
A meno di scegliere di far riferimento, perché no, all’opera d’intrattenimento del mangaka Daijiro Morohoshi, iniziata nel 1976 ed intitolata Ankoku Shinwa (暗黒神話 – Mito Oscuro) in cui il giovane Takeshi Yamato, discendente dell’antico clan egemone giapponese, avrebbe incontrato un giorno la figura di un anziano profeta nella foresta. Il cui nome Takeuchi non tradiva certo la nascita nella remota epoca Kofun, da cui era stato preservato tramite la capsula temporale della stessa pietra sacra di Masuda, all’interno della quale aveva dormito per interminabili generazioni. Soltanto al fine di chiarire al giovane il suo glorioso, nonché terribile destino: quello di assumere la forma di un atman (personificazione terrestre) di Brahman, la Verità dell’Universo, al fine di combattere la stirpe di demoni che stava nuovamente per tornare ad aggredire l’umanità. Un’eredità certamente indesiderata, ma altrettanto difficile da rifiutare. Proprio come ci si aspetterebbe dall’ultimo depositario di una stirpe d’eroi.