Vivere nel luogo più isolato della Terra ha chiaramente i suoi vantaggi, soprattutto di questi tempi: preoccupazioni limitate in merito a guerre, pandemie o crisi economiche, totale inesistenza sul carnét di terroristi ed altri detrattori della società civile. Sebbene nel caso dell’Isola di Pasqua, territorio periferico del Cile nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, ciò abbia comportato storicamente un tipo assai specifico di problema… Sto parlando dell’esaurimento, progressivo e inarrestabile, di ogni potenziale risorsa a disposizione, ivi inclusa quella di alberi da usare per la produzione di legname, materia prima imprescindibile per continuare la costruzione dei tradizionali Moai, le teste di pietra tanto rappresentative di questa cultura senza termini di paragone, tanto spesso decontestualizzata dalla narrativa popolare contemporanea. Condizione ambientale che come narrato in maniera storicamente imprecisa ma concettualmente corretta dalla celebre pellicola del 1994, Rapa-Nui, avrebbe portato tali genti, verso l’inizio del XVI secolo, a duri conflitti tribali accompagnati dalla convinzione di essere gli ultimi umani sulla Terra, con conseguente venerazione del mistico Tangata manu o Uomo uccello, una creatura incline a proteggerli in cambio di continue prove di abnegazione e di forza. Vedi il coraggio necessario a lanciarsi a una velocità di circa 80 Km orari, giù dalle pendici del vulcano Maunga Pu’i, con un’inclinazione di 45 gradi mantenuta per oltre 300 metri di tragitto. Mansione ottenibile, allo stesso modo dell’antico arrivo dei coloni polinesiani presso questi lidi, tramite la costruzione di speciali canoe, ricavate in questo caso da due pseudofusti della pianta delle banane tagliati e legati assieme, che contrariamente all’apparenza non costituisce un albero bensì una pianta erbacea, e proprio per questo ancor più funzionale al principio estremo di scivolamento verso l’obiettivo finale. Gloria, vittoria, eternità, princìpi conseguiti da ogni singolo partecipante, ma in modo particolare i vincitori, del pericoloso rituale dello Haka pei. Anticamente un rito riservato al raggiungimento dell’età adulta e conseguente ingresso nelle schiere dei matato’a o guerrieri, mentre oggi viene celebrato esclusivamente nel contesto della grande festa annuale del Tapati, che si configura ad ogni mese di febbraio come la più prossima equivalenza di un vero e proprio concetto di Olimpiadi isolane, finalizzato all’elezione di una “coppia regale” al termine delle prove. Consistenti in corse di cavalli, maratone, attività creative quali la danza e la pittura e infine… Tale terribile dimostrazione, portata innanzi ormai da poche decine di coraggiosi, che regolarmente si conclude con svariati infortuni di variabile entità. Questione ancor più grave, quando si considera le svariate ore di volo che separano eventuali feriti dal più vicino ospedale cileno. Non che questo sembri condizionare eccessivamente, coloro che paiono convinti a tutti gli effetti della propria fisica immortalità quando percorrono l’antica via maestra…
Lo Haka pei comincia, secondo un copione attentamente perfezionato nel corso dei secoli pregressi, con una cerimonia sulla cima del vulcano spento concepita per aggiudicarsi il mana (energia spirituale) e la protezione di Makemake, Dio della fertilità e solenne protettore antropomorfo del più distante uomo uccello. Il che comporta l’esecuzione di una haka propiziatoria, mentre i partecipanti vestiti unicamente di un sottile perizoma si dipingono il corpo a vicenda, con figure geometriche capaci di massimizzare i propri presupposti di sopravvivenza, mentre si preparano ad una delle imprese più pericolose, e drammatiche, della propria esistenza fino a quel fatidico giorno. Mentre i partecipanti veterani, con più discese all’attivo, si occupano di applicare gli ultimi perfezionamenti alle slitte, con colpi di machete e l’applicazione dei nodi corretti, alcuni offrono ritualmente un pasto rituale a base di umu tahu (una forma di curanto, o stufato cotto su pietra) agli Dei, stessa pietanza tradizionalmente consumata dagli spettatori situati a valle. Finché giunti al momento prefissato, i primi coraggiosi si lanciano al riecheggiare d’orgogliosi grida di battaglia, confidando che ogni cosa possa volgere al meglio, per la maggiore gloria del proprio rispettivo schieramento regale di appartenenza, scelto in base a vaghe connessioni di sangue, per quanto possano essere effettivamente remote. Una discesa estremamente precaria, nel corso della quale il benché minimo errore nel mantenere l’equilibrio, evitare eventuali ostacoli, asperità o pietre sul percorso, per quanto oggettivamente rare, può facilmente sfociare in un drammatico cappottamento con conseguenze assai difficili da prevedere. Vedi quelle subite nel 2016 dalla leggenda locale Uri Pate, che dovette essere trasportato d’urgenza all’ospedale di Santiago come si trovò a raccontare in prima persona il documentarista inglese Matt Raynard. Momenti gravi, persino tragici, che tuttavia non parvero inficiare in alcun modo la continuativa pratica dello Haka pei, anno dopo anno criticato dalle autorità, eppur mantenuto vivo per un’appassionato legame alle tradizioni di coloro che seppero crearlo, in un’epoca tanto remota quanto priva di testimonianze oggettive a cui fare riferimento.
Esiste una teoria, d’altra parte, secondo cui l’inclinazione alla fisicità e il coraggio individuale della cultura di Rapa Nui debba essere ricondotta alle difficili condizioni del viaggio compiuto in epoca premoderna per raggiungere questa terra precedentemente sconosciuta, tali da permettere soltanto la sopravvivenza dei più prestanti e resistenti tra i navigatori. Originali capostipiti di una lunga discendenza, in cui il distanziamento dalle primordiali prove di sopravvivenza non sarebbe semplicemente mai stata accettato, in un ciclo inarrestabile di accrescimento delle prestazioni fisiche, qualunque fosse il costo ed il pericolo inerente. Una prospettiva in base alla quale gli oggettivi rischi dello Haka pei non potrebbero in alcun modo costituire ostacolo alla sua continuità nel tempo, neanche quello remoto ma pur sempre presente di finire per scatenare un incendio, causa il semplice attrito tra i tronchi di legno e l’erba usata come pista fino al traguardo.
La finale graduatoria dei partecipanti viene quindi determinata dal tempo di percorrenza impiegato da tutti coloro che sono riusciti a completare la propria run, a insindacabile giudizio dei cronometristi dislocati lungo il pendio della collina. Meno importante risulta essere la velocità raggiunta (benché celebrata tra i partecipanti) mentre eventuali cadute o cappottamenti costituiscono ovviamente ragione d’immediata squalifica, senza la possibilità di provare di nuovo. È liberamente concessa invece, alquanto inaspettatamente, la partecipazione in tandem di slitte con due occupanti, approccio che aumenta considerevolmente l’andatura massima ma anche il rischio e la difficoltà. Assolutamente imprescindibile diventa inoltre, nel caso specifico, il possesso di una perfetta capacità di coordinarsi tra i due membri del team.
Imprese come queste, nell’attuale mondo logico e improntato al raziocinio sopra qualsiasi altra cosa, appaiono stranamente prive del proprio sostegno culturale di partenza. Mentre il rischio di chi pratica sport estremi al giorno d’oggi, generalmente, viene corso in situazioni altamente controllate o alternativamente, da individui che la società non può considerare pienamente in possesso delle proprie capacità mentali. Laddove ancora esiste, oltre tante miglia di mare, il caso che la collettività stessa possa credere nell’impossibile, facendo tutto ciò che è in suo potere per riuscire a realizzarlo. Non dovrebbe forse, tutto questo, ispirarci ad uno stato di maggiore comprensione dei nostri limiti e i traguardi alla portata di un’umanità indivisa? Dinnanzi alle maggiori sfide che ci aspettano, tra cui la versione su scala globale dello stesso esaurimento di risorse vissuto a suo tempo dall’isola di Rapa Nui. Cui fece seguito l’arrivo degli europei, con il loro carico di ratti distruttori, deportazione con finalità di schiavismo e malattie. Forse una “fortuna” che potremmo ritrovarci inaspettatamente ad invidiare; se soltanto l’andamento della slitta andasse incontro al tipo di disastro che in molti già si aspettano. Oltre il dirupo e giù dalla scogliera, tra le fauci d’insensibili squali affamati.