Camminavo pensierosamente tra le sabbie di un famoso lungomare, quando vidi l’alta forma all’orizzonte. Come un alto castello medievale, posto in posizione irraggiungibile, sovrastando il feudo del suo signore. Mentre nella solitudine della foschia mattutina, gli unici soggetti di quei bastioni parevano appartenere al silenzioso gruppo di leoni marini, adagiati lietamente sulla roccia che sporgeva dal pelo antistante dell’Oceano Pacifico, intento a sussurrare il suo richiamo al loro posto. Quanti segreti albergano all’interno, dietro gli occhi di quell’alto maniero ormai da tempo privo di utilizzatori… Ma per sempre vivo nella mente di chi ne ha visto gli anni migliori, pranzando e cenando in un lieto convivio, al suono dell’organo meccanico posizionato nel suo vasto salone. Come fosse una balena la cui bocca si è ormai chiusa per l’eternità, mentre si trova in bilico tra questo mondo e quello successivo.
Le ossa, queste antiche ossa sbiancate dal mare: c’è del potere, nei ricordi di un luogo e le vicende che si sono susseguite al suo cospetto, come una certa quantità di naufragi. Il cui fasciame risultante, sulle generose spiagge di San Francisco, sarebbe stato ritrovato in base a una leggenda metropolitana dal giornalista e uomo d’affari mormone Samuel Brannan, il quale avrebbe deciso di farne la sua dimora sulla cima del pendio roccioso antistante… Una storia che, nonostante sia datata al 1858, sarebbe sempre risultata particolarmente difficile da confermare. Ciò che è certo, invece, è che dopo soli 5 anni in tale luogo sussisteva un edificio, di proprietà del senatore degli Stati Uniti John Buckley, che aveva adibito quelle mura alla mansione di locanda. Un punto di ristoro, dalla semplice struttura quadrangolare e il tetto spiovente, creato assai lontano dal centro pulsante cittadino, con lo scopo dichiarato di accogliere gli escursionisti, i cacciatori e i taglialegna che solevano percorrere la costa del Pacifico in determinate circostanze della loro quotidianità desueta. In una quantità destinata unicamente ad aumentare, con la costruzione della strada a pedaggio antistante nel 1877 e l’inaugurazione del vicino Golden Gate Park, dai 1.017 acri di verde pubblico a disposizione della popolazione locale. Fu in questo periodo ed in tale guisa, che l’affascinante struttura assunse tutte le caratteristiche di un ottimo investimento, prontamente individuato da un altro grande capitalista ed inventore della storia americana: niente meno che Adolph Sutro (1830-1898) già responsabile dell’ingegnoso marchingegno utilizzato per svuotare d’acqua la redditizia miniera d’argento di Comstock Lode, in Nevada. Il quale diventato sindaco di San Francisco nel 1894, pensò bene di riuscire a celebrare quel traguardo tramite la costruzione di un qualcosa di straordinario, persino monumentale nella sua apparenza. Come un letterale chalet in pieno stile vittoriano dell’altezza di 7 piani, costruito proprio sul terreno che era un tempo appartenuto a Buckley. Una struttura sproporzionata, quasi surrealista, tale da attirarsi non poche critiche da parte degli artisti ed intellettuali locali perché dolorosamente “fuori posto”, benché non tutti condividessero tale opinione largamente soggettiva. Cosa c’è di fondamentalmente spiacevole, d’altra parte, in una cittadella fatata che ti osserva, e può essere osservata dal basso in alto? Il che non fu giudicato, alquanto prevedibilmente, ancora abbastanza da Sutro, il che lo avrebbe portato nel giro di qualche mese ad ultimare la sua seconda regalìa nei confronti della brava gente di San Francisco. L’equivalente moderno di una basilica termale dei tempi degli Imperatori Romani…
I Bagni di Sutro furono la singola attrazione maggiormente vasta e popolare di Ocean Beach, a partire dalla loro inaugurazione quattro anni prima della fine del XIX secolo e per circa un ventennio a partire da quella data. Una spettacolare struttura in cemento ed acciaio, con il tipico tetto di vetro dei grandi edifici pubblici in quegli anni, con sei piscine d’acqua salata rifornite dall’acqua marina ogni sera, 517 spogliatoi privati, un anfiteatro da 2.700 posti e nell’ultimo periodo, anche una pista di pattinaggio sul ghiaccio refrigerata autonomamente. A completare la già notevole offerta al pubblico, anche un museo con manufatti storici, animali impagliati e varia memorabilia acquistata da Sutro alla chiusura dei Woodward’s Gardens, un’altra celebre attrazione cittadina. Questo luogo, straordinariamente popolare in determinati momenti dei suoi trascorsi, non sarebbe tuttavia mai risultato veramente redditizio, causa gli eccezionali costi di gestione, imboccando un declivio sdrucciolevole che avrebbe anticipato il suo futuro disastro. Avete già sentito a tal proposito il detto, molto popolare negli Stati Uniti, “Anche questo, un giorno, passerà”. Ipotesi a sostegno della quale, senz’ombra di dubbio, la vicenda della Cliff House a partire da quel fatidico momento avrebbe potuto costituire un valido esempio. Dopo essere sopravvissuta senza gravi conseguenze al devastante terremoto del di San Francisco del 1906, secondo i giornali dell’epoca grazie all’utilizzo nella sua costruzione di “Ottimo legname americano” e per il sopraggiungere di una casistica ben meno drammatica e significativa sui libri di storia: un semplice incendio. Destino tutt’altro che raro per tale tipologia ed epoca d’edifici, già dotati di complessi impianti elettrici ma senza i precisi accorgimenti previsti dalle normative contemporanee. Sebbene il resoconto ufficiale avrebbe individuato la causa, nel caso dello storico edificio, nel malfunzionamento di uno dei suoi camini. E questa fu la fine, purtroppo, della seconda e più affascinante versione della Cliff House, sebbene non l’epilogo della nostra storia. Visto come Emma Merrit, la figlia di Sutro, avrebbe commissionato la costruzione di una nuova struttura sul terreno e le rovine, per poi darla in concessione al celebre ristoratore John Tait, che ne avrebbe saputo cavalcare efficientemente l’antica fama. Il nuovo edificio, in pieno stile neoclassico, fu quindi fino al 1937 un’istituzione della zona, particolarmente amata dalla fiorente cultura bohémienne degli abitanti della Città della Nebbia. Fino al brusco cambiamento di obiettivi, con l’acquisto da parte di George e Leo Whitney, proprietari del vicino parco giochi Playland-at-the-Beach, i cui visitatori avrebbero potuto prendere direttamente l’apposita funivia antistante, per raggiungere il balcone della Cliff House, ristrutturata per l’occasione con l’aspetto di una tipica roadhouse americana (noi l’avremmo chiamata, forse un po’ brutalmente, un Autogrill). All’interno ed attorno alla quale, varie meraviglie: una cascata artificiale, un Museo dei Giochi Meccanici, una camera obscura, o intera stanza fotografica capace di proiettare il panorama sulla parete. Nel 1966, purtroppo, la fine di un’epoca: i vecchi bagni di Sutro, ormai lungamente abbandonati, prendono fuoco anch’essi, restandone completamente devastati fino alle fondamenta. Ogni progetto di restauro ed eventuale riapertura viene abbandonato, mentre la causa del disastro viene identificata come dolosa; ma il colpevole, ahimè, non fu mai stato trovato.
Acquistata infine dal Servizio Parchi Nazionale nel 1977, alla cui gestione appartiene ancora oggi, il ristorante rinnovato della Cliff House sarebbe stato riportato allo stile dei primi del Novecento, ovvero senza insegne e certamente senza il fascino dello straordinario palazzo sulla rupe del Sig. Sutro. Operativo con buoni guadagni per i suoi gestori di volta in volta, tramite un leasing rinnovato rigorosamente a breve termine, l’edificio avrebbe continuato perciò a funzionare in base al piano originario, noncurante delle persistenti critiche in merito ai suoi meriti esteriori tali da farla assomigliare a una struttura carceraria (ed in effetti, questa volta, almeno parzialmente giustificate).
Almeno fino alla significativa, e tutt’ora insuperata battuta d’arresto nel 2020; quando con l’inizio dell’epoca del COVID, non potendo più coprire i costi enormi dell’affitto e senza nessun tipo di aiuto governativo, i proprietari del ristorante decisero purtroppo di chiudere i battenti, lasciando l’antica dimora del tutto disabitata. Sarebbero perciò servite solo poche settimane, perché la feroce comunità dei graffitari di Frisco accorresse a ricoprire le sue mura d’indesiderabili “decorazioni”, tra la titubanza e l’incapacità d’individuare dei possibili nuovi custodi del prezioso bene cittadino. Ed è in questa guisa che oggigiorno siamo inclini a ritrovarlo, soltanto un mese dopo l’asta in cui stoviglie, tovaglie e persino le fotografie autografate di celebrità alle pareti sono state messe in vendita in un’asta online, nel tentativo di recuperare almeno parte delle copiose somme di denaro evaporate con la sua chiusura.
Mentre si parla, occasionalmente, di una possibile riapertura entro la fine del 2022; ma nessuno, neanche i leoni marini nella nebbia, possono conoscere il futuro. E di certo quelle vecchie ossa, trasformatosi in cemento armato, avranno ormai da tempo perso il mistico contatto con la forma della balena. Tutto quello che possiamo fare è continuare ad osservare l’alta forma sulla rupe. Sperando che non venga un giorno avvolga dalle cupe fiamme dell’insostenibile esistenza strutturale. Di nuovo.