In un periodo poco successivo all’inizio del Proterozoico, corrispondente a circa 2.450 milioni di anni fa, i membri della più diffusa forma di vita decisero improvvisamente di averne avuto abbastanza. E stanchi di lottare, capsula e flagello, per ciascuna singola ora di sopravvivenza in un ambiente fondamentalmente ostile, iniziarono ad avvelenare la Terra. Incamerando quella stessa energia solare che gli aveva permesso di venire al mondo, impararono per tale fine a trasformarla, attraverso il processo della fotosintesi clorofilliana. Fu una catastrofe letteralmente priva di precedenti, nonché la fine drastica di un’Era. Poiché la restante parte dei microrganismi in grado di occupare l’atmosfera fino a quel momento, non solo non potevano processare l’ossigeno, ma risultavano del tutto incapaci di coesistere assieme ad esso. Morirono a miliardi, uno dopo l’altro, mentre i cianobatteri occupavano progressivamente ogni intercapedine finalmente libera del mondo. Cielo, Terra, Oceano e Sottosuolo. Finché alcuni di loro, entrando a far parte di una perfetta contingenza di fattori, avrebbero finito per accendere il riscaldamento.
Calore inusitato ed energia in quantità copiosa: la reazione nucleare controllata, tra tutte le scoperte scientifiche del Novecento, risulta essere una delle più potenzialmente influenti nel cambiare il corso presente e futuro della storia umana. Se non fosse per il gravoso problema di riuscire a smaltire le scorie radioattive che immancabilmente ne risultano, considerate come la perfetta rappresentazione materiale del concetto di karma, proprio perché nocive a qualsiasi livello immaginabile e per ogni singola forma di vita esistente. Eppure se prendiamo come esempio una qualsiasi stella, intesa come agglomerato di materia risultante dall’antica convergenza di una nebulosa, appare chiaro come in presenza di una forza gravitazionale sufficientemente significativa, la fissione del nucleo atomico sia un processo del tutto naturale e imprescindibile, letterale concausa della nostra stessa esistenza. Poiché questione largamente acclarata, risulta essere come in assenza di un simile sistema di riscaldamento nei confronti dell’eterno gelo cosmico risulti assai difficile che un qualsivoglia tipo di creatura possa nascere, gioire, moltiplicarsi. Quello che tuttavia nessuno aveva mai pensato, prima della scoperta nel 1972 dei reattori nucleari naturali situati sotto la miniera di Oklo, in Gabon, era che semplici esseri privi di raziocinio potessero essere all’origine di un similare tipo di processo, capace di anticipare “lievemente” l’opera scientifica di Enrico Fermi e i celebri ragazzi di via Panisperna.
Immaginate, dunque, l’improbabile realizzarsi di questa scena: il tecnico Bouzigues che impegnato in un’analisi noiosa e di routine con spettrografo sull’uranio estratto dai suoi colleghi rileva un’importante discrepanza. Caso vuole, infatti, che all’interno del prezioso minerale oggi processato prima di essere inserito nei reattori nucleari costruiti dall’uomo sussistano comunemente due tipologie d’isotopi: l’U-238 e 235. Il primo dei quali, sostanzialmente inoffensivo, tende naturalmente ad aumentare mentre sottrae neutroni alla controparte, vero toccasana per qualsiasi reazione nucleare artificiale, proprio perché incline a dare inizio alla serie di cause ed effetti che viene identificata comunemente con il termine di reazione a catena. Il che significa, in parole povere, che in ogni singolo campione di uranio di questo pianeta il rapporto tra i due isotopi dovrebbe essere costante, con un coefficiente nella nostra epoca pari a 0,7202%. Se non che i dati raccolti in tale casistica mostravano piuttosto un rapporto di 0,7171%, proprio come se qualcuno, o qualcosa, avesse precedentemente utilizzato quelle pietre, prime di rimetterle inspiegabilmente a centinaia di metri di profondità sotto la superficie della crosta terrestre…
La questione fu immediatamente sottoposta all’ente francese del Commissariat à l’énergie atomique (CEA) secondo una normativa elaborata proprio al fine di documentare l’eventuale creazione di centrali abusive o ordigni atomici da parte di gruppi di non autorizzati. Se non che l’ipotesi apparve fin da subito così poco probabile, da indurre alcuni a ipotizzare addirittura l’intervento precedente da parte di un qualche tipo d’intelligenza aliena. Almeno finché a qualcuno non tornò in mente uno studio scientifico pubblicato 16 anni prima dal fisico americano Paul Kuroda, in cui s’ipotizzava la possibile formazione spontanea di reattori nucleari in presenza di particolari condizioni geologiche pregresse. Condizioni assolutamente conformi, per quanto era possibile apprezzare, alla località di Oklo, in Gabon. Dove poco sotto i più profondi pozzi scavati dall’uomo, cominciava uno strato d’arenaria permeabile posizionato al di sopra dello zoccolo granitico sottostante. Entro cui le vene di prezioso uranio coesistevano, a intervalli regolari, in mezzo a falde acquifere configurate come dei veri e propri fiumi sotterranei. Ragion per cui l’acqua piovana, penetrando periodicamente in tale oscuro dedalo, irrorava quel reticolo di materiale radioattivo, ottenendo al tempo stesso due diversi effetti: in primo luogo, lo spostamento fisico e conseguente raccolta in grandi ammassi del minerale, un processo reso possibile proprio dalla presenza di ossigeno sotto terra, grazie alla compenetrazione coeva dei cianobatteri proterozoici. Mentre al tempo stesso, secondo un metodo ben collaudato ed oggi conosciuto dalla scienza e chiamato mediazione, il prezioso liquido trasparente rallentava la trasformazione di U-238 in U-235, fino al punto di massimizzare il numero di urti accidentali tra i neutroni coinvolti tra la fissione. Fino al punto cosiddetto critico, entro il quale un simile processo generava un ciclo ricorrente tale da potersi, virtualmente, replicare all’infinito. Una potenziale apocalisse conduttiva fino ad una catastrofica esplosione, se non che l’assenza di un gigantesco cratere in corrispondenza dell’attuale miniera di Oklo lasciava presupporre il coinvolgimento di un ulteriore fattore, in qualche modo capace di limitare o regolamentare l’accensione del reattore. Una risposta destinata a palesarsi, dopo lunghi mesi di studio, grazie al coinvolgimento del fisico francese Francis Perrin, un altro sostenitore dell’ipotesi di Kuroda, che proseguì nell’analisi approfondita dei campioni estratti dalla miniera. Il che avrebbe permesso non solo di rilevare la presenza di neodimio, rutenio ed altri metalli tipicamente risultanti da una prolungata fissione nucleare, dislocati secondo modalità tali da permettere l’individuazione di 16 (potenzialmente, 17) diversi siti interessati dal meccanismo. Ma anche tracce di gas xenon, declinato in un’ampia varietà di isotopi mescolati ad altre sostanze, secondo le modalità risultanti da tempistiche ben precise. Verso l’acquisizione, in altri termini, degli esatti intervalli di funzionamento dei reattori: 30 minuti di attività, seguiti da 160 di stasi, per poi procedere alla riaccensione in un ciclo completo indotto a ripetersi più volte al giorno. Tutto questo, secondo un’applicazione della mera logica, in forza dell’inevitabile evaporazione dell’acqua agente come mediatore, il che velocizzava di nuovo il decadimento degli isotopi prevenendo il verificarsi della fissione. Tutto questo finché nuove quantità di liquidi, penetrando nella faglia, rifornivano gli agglomerati “accendendo” nuovamente il reattore.
Ciò che gli scienziati coinvolti scoprirono ben presto, con il proseguire delle indagini, fu come i reattori di Oklo fossero ormai spenti da parecchi milioni di anni, causa l’esaurirsi delle concentrazioni non raffinate d’Uranio ancora dotate di una reattività tale da riuscire a generare energia sufficiente. Oltre all’accumulo, in quantità assolutamente non trascurabile, dei veleni neutronici di risultanza, tra cui composti del boro, del gadolino e dell’afnio. Il che da origine al fondamentale monito, nonché lezione principale che viene spesso individuata in merito all’intera questione. Non tanto relativamente alla presumibile facilità di generare un reattore nucleare sostenibile ed efficiente (viene stimato come il sito abbia prodotto, in 100.000 anni, l’energia sufficiente ad accendere appena un paio di tostapane e una manciata di lampadine) quanto per lo smaltimento delle scorie poste in essere dal suo funzionamento. In quantità tali da richiedere, secondo la normativa vigente, la creazione di siti adeguati e contromisure straordinariamente dispendiose. Laddove la natura stessa, in un’epoca eccezionalmente lontana, ne generò quantità paragonabili operando sottoterra. Dove le scorie in questione rimasero, per un tempo molte volte superiore all’intero estendersi della storia umana, senza spostarsi più di qualche metro né avvelenare alcuna porzione del prezioso suolo africano.
Questioni che danno da pensare, nel giorno successivo alla giornata della Terra 2022. Un luogo dove lo sfruttamento dei carburanti fossili, attività tutt’altro che sostenibile, ha ormai da tempo generato il pesante ed irrecuperabile processo del riscaldamento planetario. Che negli ultimi anni ha continuato ad accelerare in modo drastico, mentre innumerevoli nazioni continuano a ignorare le proprie potenzialità in materia di energia nucleare, per la reazione emotiva e comprensibile diffidenza causata da una serie molto breve d’incidenti. La cui gravità, oggettivamente, non può essere del tutto controllata. Ma lo stesso può esser detto delle alternative più “ragionevoli” e “diffuse”. Perché un giorno, dobbiamo soltanto continuare a sperarlo, l’umanità potrà giovarsi di energia completamente rinnovabile e pulita. La domanda da porci a questo punto resta relativa al punto a cui saremo disposti a giungere, finché tale eventualità continuerà ad essere soltanto un auspicabile miraggio, condannata a figurare verso l’orizzonte irraggiungibile degli eventi.