“Non c’era nessuno in città, e nessuno nei campi. Questa terra desolata aveva dato tutto quello che poteva…” Cantavano i Mumford & Sons nella loro Ballata del Dust Bowl, con riferimento tutt’altro che velato ad uno dei più grandi disastri ambientali nella storia degli Stati Uniti contemporanei. Il momento storico iniziato nel 1931, e terminato quasi 10 anni dopo, durante cui l’accumularsi di tecniche agricole e processi di sfruttamento inadeguati le vaste pianure del meridione diventarono terreno dannatamente fertile per un diverso tipo di fenomeno. Quello mostrato nel famoso documentario cinematografico del 1999 “La mummia” in cui l’espressione iraconda del faraone rimasto empiamente attaccato alla vita Imhotep, interpretato da Arnold Vosloo, compariva in un muro di polvere capace d’inseguire la jeep di Brendan Fraser e gli altri eroi al seguito, lasciando dietro di se soltanto una scia di soffocamento e devastazione. Togli quindi l’elemento sovrannaturale, frutto dell’umano desiderio di sdrammatizzare, e quello che resta è il surreale episodio dello haboob, parola in lingua araba che deriva per l’appunto dal verbo che significa “soffiare” o “bersagliare” di sabbia, offrendo un chiaro indizio in merito al drastico dipanarsi di un tale risvolto climatico all’inizio della fine. Che così elegantemente possiamo apprezzare, nell’antologia gentilmente offerta dal popolare fotografo dei timelapse di Phoenix (Arizona) Mike Olbinski, nell’anniversario del suo primo grande successo virale online, rivelatosi capace di cambiare ed agevolare sensibilmente il corso futuro della sua carriera. Associando il proprio nome, precedentemente specializzato in matrimoni e foto di famiglia, alla complessa e qualche volta pericolosa attività d’inseguire i sommovimenti atmosferici di questa Terra, documentandone l’eccezionale aspetto esteriore per il vasto ed eterogeneo pubblico dei suoi molti fans. Così come fatto in quell’epocale 5 luglio del 2011, quando il più eccezionale conglomerato di microparticelle accompagnate da una possente scarica di vento minacciò d’inghiottire completamente la città natia, in un perfetto esempio di quella che non a caso viene definita la “tempesta nera” così come sarebbe stato catturato dalla telecamera sapientemente posizionata sul davanzale della finestra di casa sua. E sebbene i conseguenti canali social di un simile creativo, tutti riconducibili alla stessa visione e tipologia d’offerta, si sarebbero progressivamente popolati di una vasta quantità di fenomeni, tra cui temporali, supercelle, uragani, tornado e cumulonembi particolarmente attraenti, sarebbe sempre rimasta la tempesta di polvere a costituire un fedele pilastro della sua poetica. Come rappresentazione maggiormente fedele dell’apocalisse incipiente, cui l’unica reazione logica è fermarsi e mettersi al riparo. Per le conseguenze tutt’altro che trascurabili, e spesso non così note, che simili nubi possono avere sulla salute dei polmoni umani…
Spesso l’oggetto di accese disquisizioni etimologiche da parte dei nativi di questo stato, il prestito metalinguistico dall’Arabo della parola haboob ha in realtà un’effettiva utilità nella definizione e distinzione di un tale fenomeno. Ciò nella misura in cui il dipanarsi dello stesso riesce ad essere effettivamente diverso da quello di una classica tempesta di sabbia, generalmente composta da particelle sabbiose di dimensione media, mentre i particolati polverosi sollevati in questa tipologia di evento sono talmente sottili da poter essere classificati come una forma d’inquinamento. Facilmente inalato, ed ancor più facilmente capace d’indurre con il suo raschiamento una forma di polmonite particolarmente acuta per le persone, che in almeno un caso documentato retroattivamente dalla scienza medica ha saputo condurre colui che l’aveva contratta alla morte. Mentre si sospetta che un aumento statistico dei decessi nelle Grandi Pianure durante la lunga decade del Dust Bowl possa aver avuto origine proprio dal diffondersi di questa ed altre malattie con vettori microscopici, trasportate per l’appunto nel grande vortice incline a penetrare fin troppo facilmente le permeabili barriere del sistema respiratorio umano. Per questo al giorno d’oggi viene enfaticamente consigliato di cercare riparo al chiuso nel momento in cui un haboob si profila all’orizzonte, sebbene data l’effettiva natura e formazione dell’ondata oscura ciò non risulti sempre così facile da mettere in atto. Quando ai margini di una concentrazione di alta pressione, mentre a poca distanza infuria un temporale, l’aria fredda precipita verso il suolo caldo e secco, dove inizia a propagarsi in tutte le direzioni in maniera radiale. Dando luogo a raffiche di vento capaci di raggiungere anche i 100 Km/h mentre seguono le asperità del terreno, la cui effettiva composizione diviene a questo punto di fondamentale importanza. Vista la maniera in cui l’effettiva presenza di un sostrato privo di vegetazione o pietra, ogni singola particella diviene parte della terribile cavalcata, costituendo un muro verticale capace di anticipare visivamente uno dei possibili epiloghi di questo mondo. Ma nessun dito divino, occhio del signore dei demoni o disco volante in pieno stile “Indipendence Day” è necessario per mettere in prospettiva la portata del disastro, quando si osserva tutto a dimensioni reali, diventando istintivamente coscienti della propria natura piccola ed insignificante.
Spesso un danno economico a breve e medio termine, oltre che relativo alla salute delle persone, gli occasionali e sempre più frequenti haboob riescono a ricoprire un’intera città come quella di Phoenix da uno strato di polvere paragonabile a quella di un’eruzione vulcanica. Riducendo la visibilità a pochi metri e costringendo, senza falla, a dispendiose pause nell’attività dell’aeroporto, per non parlare dei numerosi possibili, e spesso inevitabili incidenti stradali. Ma il problema più grande resta sempre a carico degli agricoltori, per cui il passaggio della tempesta di polvere è l’inizio di un periodo di attività frenetica, nella speranza di riuscire a salvare il salvabile del proprio raccolto, notoriamente esposto alla furia indifferente della natura.
Così abile nell’inquadratura e la scelta della colonna sonora, con modalità capaci di farlo accedere almeno due volte all’Olimpo degli autori più guardati dell’anno del portale Vimeo, Mike Olbinski è perciò diventato uno dei più stimati narratori di questo genere di devastazione tanto largamente priva di contromisure o coefficienti facilmente prevedibili, dimostrando come il disastro di qualcuno possa trasformarsi nella strada dorata di qualcun altro. Giungendo negli ultimi tempi anche alla costituzione di una sua pagina Patreon, per la raccolta a cadenza mensile di fondi ricompensata da un accesso diretto alle metodologie produttive dei suoi lavori.
Mentre il giovane contadino protagonista della canzone dei Mumford & Sons, come apprendiamo dal resto dei suoi versi, non sarebbe stato altrettanto fortunato. Rimasto senza terra né casa a seguito della devastazione arrecata dalla decade del Dust Bowl, incidentalmente seguita dalla grande depressione, avrebbe perso anche suo padre. E negli ultimi, drammatici versi, andando a prendere l’arma da fuoco dall’armadio (importante cimelio della cultura statunitense) la punta all’indirizzo di colui che gli ha tolto tutto, presumibilmente il nuovo proprietario della tenuta un tempo appartenuta alla sua famiglia. Consapevole di “Ciò che ha fatto e quello che dovrà pagare” a causa di un sistema ingiusto, artefatto dell’umana cupidigia in cui il benessere collettivo viene improvvisamente accantonato al sopraggiungere di un’epoca oscura. La fine di tutto e l’inizio di nulla, ovvero il risvegliarsi di un antico male: il doloroso conflitto tra necessità ed eventi. La vera tagliente, sottile e irrespirabile polvere di questo mondo.