Nel 1947 il Dr. J. Otto George, medico e sciatore appassionato, percorreva durante l’inverno in auto la tortuosa ed insicura strada verso il Rifugio di Timberline, un prestigioso resort situato presso uno dei principali siti per gli sport invernali di tutto il Pacific Northwest. Mentre rallentava per l’ennesimo tornante, la neve che si accumulava sul suo parabrezza, pensò qualcosa d’incredibile che avrebbe rivoluzionato alla radice il nesso stesso di quel problema. Dando luogo ad un’iniziativa fondata sulle migliori intenzioni. Ma che avrebbe avuto conseguenze tutt’altro che lodevoli per il monte Hood, il suo prestigio, nonché l’economia turistica della regione. Qualcosa di assolutamente straordinario, a suo modo… Dovete considerare come in quell’epoca negli Stati Uniti il concetto stesso di funivia non appartenesse in alcun modo al senso comune. Finendo in questo modo per restare impresso con chiarezza nella mente di costui, quando ebbe modo di vederne un raro esempio nazionale durante la sua visita a Cannon Mountain nel New Hampshire, sulla Costa Orientale del continente. Ma poiché stiamo parlando di una persona creativa e dal forte senso imprenditoriale, non ci fu mai nella sua mente il dubbio che dinnanzi a quel progetto, di una serie di gondole sospese e tirate verso l’alto da una corda mobile sopra una serie di piloni, lui potesse fare meglio. Tramite un approccio “più grande” e soprattutto “più potente” che poi sono due sinonimi nel principale paese Nord Americano di quel concetto assai aleatorio del lusso in quanto tale. Procuratosi un socio imprenditoriale nella persona di A. L. Greenwalt, il numero appropriato d’investitori e soprattutto il permesso ed un finanziamento da parte del verdeggiante stato dell’Oregon, il buon dottore si rivolse quindi alla Pointer-Willamette di Portland, un’azienda specializzata nel trasporto forestale, al fine di ricevere il loro aiuto per l’adattamento del recente sistema cablato Skyhook, dalla sua funzione primaria del trasporto di legname a quella totalmente diversa di fare lo stesso con le persone.
Fu un chiaro esempio di straordinario ottimismo, coadiuvato da una sostanziale mancanza di competenza tecnica di tutti coloro che furono coinvolti direttamente nel processo decisionale; al punto che il progetto originario di quella che in origine doveva chiamarsi “Skyway” (Via del Cielo) prevedeva il sistematico sollevamento e trasporto sulla sommità della montagna, a 4,8 Km di distanza e circa 900 metri più in alto, di una serie di carrozzerie di autobus sistematicamente agganciati e sollevati dal meccanismo dotato del suo stesso motore. Un approccio più che mai ottimistico, basato quasi completamente su componentistica pre-esistente, irrimediabilmente destinato a scontrarsi nel corso dei primi sei mesi con la cruda spietatezza dell’ingegneria. Tanto che di anni, prima che potesse essere completato il progetto, ce ne sarebbero voluti ben tre…
Il primo problema da affrontare fu perciò quello del nome. Poiché pare che l’appellativo di Skyway fosse in effetti già esistente e coperto da copyright (ce n’è una al Monte Bianco, che si trattasse già allora di quella?) ragion per cui il sistema del Dr. Otto venne ribattezzato ben presto Skiway, che significa semplicemente Funivia, benché ci si aspettasse di continuare a pronunciarlo allo stesso modo identico modo: skai·way. Mentre l’idea originaria del sollevamento seriale venne quasi subito scartata, poiché introduceva troppe problematiche dispendiose e possibili margini di fallimento. La squadra ingegneristica coinvolta nel cantiere elaborò perciò un approccio differente, in cui il motore dello Skyhook veniva sostituito da un impianto a benzina, anzi due, contenuti all’interno dell’autobus stesso, le cui ruote erano state sostituite con delle pulegge in cui passava il cavo del sistema di sospensione. In modo tale che quest’ultimo, scorrendo attorno ad esse, permettesse all’imponente cabinovia di muoversi nell’uno o l’altro senso di marcia, con un carico per ciascun viaggio di fino a 35-40 persone. E un peso di almeno 20 tonnellate, abbastanza da sfidare ogni giorno il record di quanto potesse essere trasportato laboriosamente in senso verticale verso la cima distante di una montagna. Nel bel mezzo della stagione sciistica, nel gennaio del 1951, la nuova ed incredibile attrazione costata quasi un milione di dollari di allora venne finalmente inaugurata. In un evento che nessuno avrebbe potuto definire meno che un successo, dal punto di vista delle persone accorse a provarla, sebbene le recensioni di quel giorno fatidico avessero già iniziato a sollevare alcune delle questioni destinate a mettere i bastoni tra le ruote alla promettente compagnia dello Skiway del Monte Hood. Giacché nella storia futura del servizio non ci sarebbe stato alcun tragico incidente, o blocco e conseguente interruzione del servizio, destinato anzi a rivelarsi un chiaro esempio di affidabilità. Lasciando come cruccio principale il fatto che semplicemente, nel suo complesso, non appartenesse certo alla categoria più confortevole di mezzo di trasporto. Il problema era composito e prendeva origine dal peso significativo delle due cabine realizzate, tale da richiedere il funzionamento a pieno regime dei due motori incorporati sotto il pavimento, capaci di produrre un terribile frastuono al punto da rendere difficile ogni possibile tentativo di conversazione. Inoltre, questione certamente non da poco, il guidatore doveva necessariamente rallentare in corrispondenza di ciascun pilone al fine di evitare preoccupanti sobbalzi, creando una sorta di effetto “montagne russe” per via del quale l’autobus percorreva una serie di archi o insellamenti all’interno del suo moto ondulatorio, ciascuno dei quali accompagnato da una serie di vibrazioni di per se già sufficientemente impressionanti. Così che, mentre alcuni recensori lodarono il magnifico panorama e la praticità del servizio, benché richiedesse 20 minuti per la traversata invece dei 10 originariamente promessi, uno in particolare paragonò l’esperienza di utilizzarlo a quella da lui vissuta durante la seconda guerra mondiale, durante cui aveva servito in qualità di mitragliere di coda di poderoso bombardiere B-17. Nonostante ciò o forse proprio in funzione di questo (dopo tutto, la mente umana funziona tramite percorsi misteriosi) negli anni successivi al 1950 il resort sciistico di Timberline diventò uno dei più popolari di tutti gli Stati Uniti, anche in funzione del suo servizio di trasporto unico al mondo. Finché qualcosa d’inevitabile, verso la metà di quella decade, introdusse un elemento che difficilmente poteva essere trascurato: la costruzione di una nuova, più sicura e utilizzabile strada verso la sommità del Monte Hood.
Il problema come dicevamo è che impiegare la Skiway costituiva un’esperienza tutt’altro che piacevole e spensierata. Così che, nonostante il costo conveniente di appena 75 centesimi a corsa, per la maggior parte degli sciatori essa costituiva un’esperienza da fare una singola volta, prima di passare a metodologie di spostamento di un tipo maggiormente tradizionale. Aggiungete a ciò la problematica, assolutamente inevitabile, delle poche corse che un sistema simile poteva effettuare in ciascuna giornata, vista la presenza di appena due autobus che non potevano tra l’altro sorpassarsi o scambiarsi di posto, essendoci soltanto una “corsia” cablata, tale da portare a tempi di attesa che potevano sfiorare anche le due ore. La compagnia già in crisi economica pochi anni dopo essere entrata in affari, propose quindi allo stato dell’Oregon un progetto di rinnovamento, in cui la coppia di vetture veniva rimossa per integrare un più convenzionale sistema con plurime gondole trainate secondo la metodologia europea. Ma i fondi non si trovarono, era semplicemente troppo tardi e l’intero impianto venne infine smantellato nel 1960.
Per usare la citazione fantastica di uno sciatore locale utilizzata nel video dello youtuber Peter Dibble mostrato in apertura “Fu la fine di un’epoca che non era mai iniziata.” E la prova, difficilmente confutabile, che non tutte le migliori intenzioni portano al conseguimento di obiettivi meravigliosi.
A meno di volerne misurare i meriti, in maniera particolarmente controintuitiva, sulla base della divergenza dalle metodologie create dalla convenzione stessa della nostra quotidianità umana. Un significativo punto di distinzione. Forse il più importante che si possa utilizzare, per riuscire a prevenire una marea d’errori.