Ed in fondo, perché no? Perché non dovrei andare a dare da mangiare alle anatre? Previa presa di coscienza della maniera in cui nel resort di Ko Olina, presso l’isola hawaiana di O’ahu, le anatre presentano un aspetto assai particolare. Basso e largo, chiaramente rettangolare. Gli occhi sporgenti simili a obiettivi di una videocamera, le ali basse mantenute perpendicolari alla superficie della laguna. Una stravagante livrea a puntini che ricorda chiaramente quella di altri uccelli, ben più lontani dal novero di quelli a noi più familiari. E il becco… duro ed affilato, adatto alla consumazione di pietanze particolarmente coriacee. Così come le due spesse labbra, pallide come copertoni di uno spazzaneve utilizzato per tenere libere le strade norvegesi. Questo perché, occorre a un certo punto sottolinearlo, le anatre di Ko Olina non sono affatto degli uccelli, ma particolari appartenenti all’ordine ittico dei tetraodontiformi, famiglia Diodontidae, dalla classica combinazione di termini greci e latini capace di alludere al significato di “[pesce] dai due denti”; una strana priorità d’altronde non ripresa nella logica del nome comune rilevante, assai più descrittivo nel suo complesso: porcupinefish, l’anima del porcospino (o istrice) letteralmente trasferita in un contesto acquatico. Fino all’ottenimento di un pesce piuttosto comune nei mari di mezzo mondo, ma che tuttavia non può evitare di stupirci per l’aspetto stravagante rispetto alle normali cognizioni di cosa dovrebbe essere una creatura che si aggira in mezzo ai flutti, costituendo al tempo stesso sia preda che predatore. Ed il cui processo evolutivo precedente, proprio al fine di resistere alle implicazioni problematiche della seconda condizione, è giunto a dotarla di un’eccezionale dote di sopravvivenza; quella utile non soltanto a sembrare “più grande” ma riuscire in senso letterale a diventarlo, mentre il suo corpo si ricopre di aculei estremamente acuminati e potenzialmente imbevuti di uno dei veleni più terribili di questo mondo. Benché la maggior parte di quest’ultimo risieda dentro gli organi e in particolare nel fegato dell’animale, rendendolo pericoloso in modo particolare nella sua accezione gastronomica di fugu, la pietanza nipponica famosa come straordinaria prelibatezza nipponica, nonché prova di coraggio per la sempre valida opportunità che un taglio inesatto, o inappropriata preparazione, possa condurre ad uno shock respiratorio dalle conseguenze non meno che letali. Il che non rende d’altra parte il pesce meno grazioso quando, senza ricorrere alle proprie notevoli armi d’autodifesa, si avvicina con fare pacifico alla mano che lo nutre, finendo per ricordare vagamente la naturale indole amichevole della carpa koi, benché le sue preferenze in materia d’alimentazione rendano opportuno dargli, come fatto nel presente video, pezzi di carne o pesce sfilettato piuttosto che semplici molliche di pane. In quantità sufficiente per una creatura dalle dimensioni niente affatto trascurabili di fino a 60 cm, ovvero abbastanza da farne il più grande tra i pesci palla del pianeta Terra. Così che una volta assunta la sua forma battagliera, il termine di paragone maggiormente proporzionato risulta essere individuabile nel pallone per giocare a basket. Di un tipo che nessuno, in alcun caso, dovrebbe mai stringere direttamente con le proprie stesse mani…
Il pesce porcospino, nella sua particolare accezione della specie Diodon hystrix mostrata nella scena hawaiana, rientra perciò in uno di quei sette generi comunemente associati al pesce palla propriamente detto, un qualsiasi dei più familiari e variopinti membri della famiglia Tetraodontidae, che non soltanto risultano essere più piccoli, ma anche privi di vistosi aculei sporgenti, facendo piuttosto affidamento su spine più piccole e talvolta neppure visibili ad occhio nudo. Elementi anatomici mai espressamente avvelenati con la pericolosa tossina prodotta da queste creature, come avviene in talune altre specie ittiche, benché la pelle non sia del tutto priva di una trascurabile quantità di tale sostanza, rendendo il ferimento accidentale mentre se ne maneggia uno di loro particolarmente poco desiderabile dal punto di vista di un umano. Il che non aveva d’altra parte impedito agli abitanti dell’arcipelago di Kiribati, in epoche antecedenti ai nostri tempi moderni, di lavorare e tagliare il corpo del pesce al fine di ricavarne una particolare tipologia di elmo ricoperto d’aculei, da impiegare nelle proprie tenute guerriere assieme a un’armatura fatta di fibre di cocco e spade in legno ricoperte dai denti di squalo. Ornamenti non particolarmente formidabili, se comparati con le regole della guerra medievale di altre zone del mondo, ma cionondimeno utili ad incutere un certo stato di timore nei confronti dei propri nemici. Un po’ come fatto, per l’appunto, dal pesce spinoso all’interno del suo naturale ambiente d’appartenenza.
Un areale, come dicevamo, innegabilmente vasto che include sia le coste americane dell’Atlantico che del Pacifico, il Cile e le Galapagos, il Golfo del Messico e persino alcune isolate comunità all’interno dell’Oceano Indiano. Per non parlare dell’anomala presenza riscontrata all’interno del Mar Mediterraneo, facendone l’unico membro del suo genere capace di abitare entro qualche migliaia di chilometri dalle nostre case. Con uno stile di vita timido e generalmente riservato, che lo porta ad abitare preferibilmente nell’interno di caverne o calette, navi naufragate o crepacci di varia natura, particolarmente utili a preservare la propria esistenza lontano da possibili fonti di pericolo. Questo perché l’atto di gonfiarsi immettendo nel suo corpo grandi quantità d’acqua, e diventando in tal modo impervio all’assalto dei propri aspiranti divoratori, è comunque molto dispendioso e qualche volta letale per l’animale, al punto che si usa dire, nel caso specifico del pesce porcospino, che in media esso possa trasformarsi in una sfera per un massimo di due volte nel corso della propria vita, pena l’aumento esponenziale delle probabilità di morte ad ogni attivazione successiva del meccanismo. Il che lo rende d’altra parte ben più resistente dei suoi cugini più piccoli, per cui ciò avviene ancora prima e con un rischio d’incolumità persino maggiore. A conclusione di una storia che, nel suo complesso, difficilmente potremmo considerare felice per il suo diretto interessato, rendendo particolarmente importante ribadire l’importanza di non tentare intenzionalmente di spaventare uno di questi pesci, soltanto per l’occasione di fare un selfie o video da postare sui soliti canali internettiani e per l’aumento della propria gloria digitalizzata.
E se la vita del porcupinefish appare tutt’altro che semplice, vista la predazione documentata ad opera di formidabili creature come il tonno pinneblu, il marlin bianco, lo squalo tigre ed il wahoo o acantocibio (Acanthocybium solandri) è innegabile per lo meno come la sua capacità di riprodursi riesca a compensare con la legge dei grandi numeri l’insorgenza di tali pericoli, grazie a uno sistema di deposizione delle uova da parte delle femmine ad ampio spettro in luoghi molto distanti dalla costa, cui fa seguito fecondazione mediante la liberazione di materiale genetico maschile nell’area interessata direttamente da questo particolare processo, chiamato in italiano con il termine tecnico di fregola. Evento cui fa seguito, nel giro di soli cinque giorni, la schiusa delle suddette capsule con conseguente fuoriuscita di larve planktoniche soltanto vagamente simili alla forma di un pesce adulto. Le quali crescendo progressivamente, inizieranno a sviluppare i propri aculei e migreranno verso zone dalle acque più basse, dove potranno giungere a incontrare, volenti o nolenti, la mano invadente degli umani.
E chi potrebbe mai riuscire a dubitare, dopo aver osservato testimonianze videografiche come queste, che un pesce dalle dimensioni medie sia dotato di quello stesso tipo d’intelligenza sommaria, che permette a tante altre creature selvatiche di riconoscere le circostanze di un possibile banchetto inaspettato? Riconoscendo e manifestando un certo livello di gratitudine, nei confronti dei suoi nuovi e bipedi amici. Non tutte le anatre, d’altronde, possono riuscire a fare quack. Il che non dovrebbe renderle in alcun modo meno meritevoli della nostra ammirazione.